Nel gennaio del 1985 arrivò sugli scaffali dei negozi di dischi "Holy Wars", quarto album dei Tuxedomoon, originari di San Francisco ma Europei d'adozione. Primo lavoro rilasciato dopo l'abbandono del fondatore Blaine Reininger, quest'album trova un equilibrio tra la wave-jazz da cabaret postmoderno degli esordi, abrasiva e sbilenca, e le tentazioni "dance" (se così si può dire) dei lavori successivi. Contiene "In a manner of speaking", il brano più celebre della band.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/ykbwp96h)
Se la musica d'avanguardia desse dipendenza, "Holy Wars" avrebbe tutte le stimmate della "gateway drug", la sostanza "leggera" che porta poi alle chine scivolose di cui i proibizionisti parlano spesso. Per fortuna, la dipendenza indotta dai Tuxedomoon non induce effetti collaterali gravi.
"Holy Wars" è il primo album dei Tuxedomoon senza il membro fondatore Blaine Reininger, uscito dalla band in polemica con l'altro fondatore Steven Brown e con il bassista/multistrumentista Peter Principle (a completare la formazione troviamo Winston Tong, mimo e cantante oltreché percussionista aggiunto, e il trombettista/multistrumentista Luc Van Vieshut). La perdita delle frizioni derivate dagli scazzi con Reininger toglierà buona parte dell'elettricità latente in, per esempio, "Desire", ma dà anche la possibilità alla band di dare spazio a baluginii "pop" inaspettati quanto gradevoli. Troviamo per esempio l'opening quasi Floydiano di "The Waltz", un paesaggio sonoro morbido e psichedelico squarciato da un sassofono dolente e acuminato; troviamo "In a Manner of Speaking", brano di delizioso pop sbilenco coverizzato a piu riprese (da Martin Gore prima e dai Nouvelle Vague poi), e "Bonjour Tristesse", sulla stessa falsariga; e poi abbiamo "St John", che arrotola l'irruenza del punk attorno a vampate di fiati degne di una colonna sonora vintage. Accanto ad esse, comunque, tanto spazio viene lasciato anche a momenti più tipicamente Tuxedomoon, ovvero sperimentali e davvero obliqui: "Hugging the Earth" e "Some Guys", per dirne due, richiedono che l'ascoltatore rivaluti i concetti di melodia e rumore, nascondendo temi invero appiccicosi sotto strati di assurdità armoniche e ritmiche di rara peculiarità.
Nel guado tra queste due polarità troviamo i brani preferiti di chi scrive: la sbilenca canzone eponima rappresenta l'esempio perfetto del tipo di libertà sperimentale che esisteva nel lungo interregno post-punk degli anni '80, e risulta memorabile tanto per il suo incedere stralunato che per le sue melodie stortignaccole, mentre "Watching the Blood Flow" incapsula le capacità della band di produrre brani allo stesso tempo violenti ed eleganti, il cui afflato epico risulta gradevole per qualsiasi ascoltatore, pur rimanendo al di fuori del seminato melodico più standard.
L'avant-jazz-punk-pop di "Holy Wars" non fa prigionieri: o si viene fagocitati da questo strano suono espressionista, oppure si passa oltre, chiedendosi cosa ci sia di storto nella testa di chi ascolta 'sta roba. Non il disco più essenziale o celebrato dei Tuxedomoon, ma probabilmente quello che più facilmente si lascia avvicinare, permettendo all'ascoltatore di scoprire territori strani e magnifici senza subire un eccessivo colpo di frusta.
- Spartaco Ughi
#tuxedomoon:
#stevenbrown (voce, pianoforte, piano elettrico, organo, sintetizzatore, tastiere, clarinetto, sax contralto & soprano, programmazione)
#peterdachert (aka #peterprinciple; basso elettrico, nastri, programmazione, sintetizzatore, chitarre)
#lucvanlieshout (tromba, armonica, melodica, flauto dolce & organo)
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