venerdì 23 agosto 2024

Jeff Buckley: "Grace" (1994)

Usciva trent'anni fa il primo, e tragicamente unico, album di Jeff Buckley, "Grace". Profondamente influente su entrambe le sponde dell'Atlantico, a dispetto della sua natura di esordio relativamente acerbo, e oggetto di culto degli anni '90, "Grace" occupa un posto speciale nella storia del Rock.



(disco completo qui:

Jeff Buckley ha suo malgrado subito, nel corso degli ultimi 35 anni, diversi paragoni che non ha amato quando in vita e che, probabilmente, ancora meno avrebbe amato in seguito. Quello con suo padre Tim Buckley, leggendario cantautore americano che lasciò la famiglia poche settimane dopo la nascita del figlio, e lo incontrò solo molto più avanti, poco tempo prima di morire per overdose, ha inseguito e irritato Buckley figlio per tutta la sua breve carriera sotto i riflettori. L'irritazione di Buckley figlio raggiunse livelli tali da tradursi in un'incendiaria performance acustica in occasione della sua prima intervista per una radio inglese, viatico di una fama istantanea in terra d'Albione. Il paragone con le band post-grunge in America, e con il duo di falsettisti/angsters Thom Yorke/ Matthew Bellamy in Inghilterra, rappresenta un fardello ancora più impegnativo, poiché lo inquadrerà ex-post come uno dei pilastri su cui poggia il rock a cavallo del terzo millennio.

Appare verosimile che il peso specifico di "Grace" abbia "beneficiato", se così si può dire, dello sfortunato destino di Jeff Buckley, morto annegato (da sobrio) nel Mississipi, in una tragica notte del 1997; cionondimeno, non si può non apprezzare l'unicità, l'originalità e l'energia leggera, lunare di quest'album. Al chiasso dei colori acrilici dell'epoca grunge, caratterizzata dalla sporca violenza dei suoi overdrive, dall'approccio punk al songwriting e da voci spesso strascicate e intossicate (o massimaliste e bombastiche), Jeff Buckley e i suoi sodali contrappongono gli acquerelli leggeri di chitarre acustiche, o comunque quasi sempre pulite, e i sofisticati carboncini di canzoni ricche di cambi di tonalità, soluzioni armoniche sorprendenti e interpretazioni vocali per certi versi rivoluzionarie. Talvolta ciò va a scapito dell'immediatezza, ma non si fanno frittate senza spine, dicono le persone profondamente confuse dal jet lag. Anche quando il disco vira verso territori più propriamente rock, con la notevole "Eternal Life", non si ha mai l'impressione di completo abbandono caciarone, quanto piuttosto di un rilascio di rabbia controllato in un disco che é più cantautorato che non prodotto rock'n'roll propriamente detto, più Bob Dylan (o Tim Buckley, duh) che non Springsteen, o Tom Petty.

Nonostante lo status, indiscutibile, di pietra miliare, si può trovare più di qualcosa fuori fuoco in "Grace". Se critici musicali più quotati di chi scrive lo hanno addirittura bollato come "fregatura", con la sola eccezione della cover di "Hallelujah", più provocatoriamente che sul serio (o così crediamo), non si può negare che molti dei dieci brani che troviamo sui di esso solchi indulgano in una produzione forse eccessiva, con tre o persino quattro strati di chitarre, tastiere, orchestrazioni e impasti vocali; la lunghezza di alcuni di essi pure potrebbe venire tacciata di eccessiva autocelebrazione, quando un minutaggio più conservativo e una produzione più ruspante ne avrebbe esaltato l'energia, senza rovinare la delicatezza di altri episodi: pensiamo alla title track, ma anche all'ipnotica "Dream Brother" e all'elegante pop rock di "The Last Goodbye", possibili gioielli easy-listening eccessivamente diluiti e omogeneizzati dai problemi sopra descritti.

Problemi di poco conto, e in realtà problemi solo fino a un certo punto, piuttosto idiosincrasie di un cantautore giovane, talentuoso, capace di un livello di sofisticazione degno di un veterano e dotato di una voce leggendaria, vera protagonista dell'album. Dotata di estensione ampissima, con falsetti e voce di testa perfettamente amalgamati nel belting e nelle voci di petto, la voce di Jeff Buckley ha lasciato un segno importante soprattutto in Inghilterra, dove verrà paragonata a quella di Thom Yorke e, soprattutto, a quella di Matthew Bellamy, che per sua stessa ammissione realizzò che avrebbe potuto diventare una rockstar, persino con una voce acuta come la propria, proprio dopo aver scoperto "Grace".

Forse, se la storia avesse scelto un sentiero meno tragico, oggi parleremmo di "Grace" come dell'esordio, splendido e imperfetto, di uno dei cantautori più brillanti degli ultimi trent'anni; ciò che ci troviamo a fare, invece, diventa celebrarne la splendida l'unicità e l'incantevole imperfezione, rattristandoci di non poter avere di più. "Grace" rimane infatti l'unico album completato da Buckley figlio: gli "sketches" del sequel, "My Sweetheart the Drunk", verranno pubblicati postumi, ma non restituiscono davvero l'impressione di un prodotto finito; la pletora di raccolte di cover, performance live e demo inedite ha più l'aria di mungitura che di vera necessità, salvo forse per la ristretta cerchia di completisti e fanatici che certamente ancora esiste. "Grace" racchiude tutto ciò che di finito e ultimato abbiamo di Jeff Buckley, e solo per questo andrebbe considerato per un ascolto attento e consapevole.

- Spartaco Ughi

Nessun commento:

Posta un commento

ARTISTI IN ORDINE ALFABETICO:   #  --  A  --  B  --  C  --  D  --  E  --  F  --  G  --  H  --  I  --  J  --  K  --  L  --  M  --  N  --  ...