martedì 4 giugno 2024

Bruce Springsteen: "Born in the U.S.A." (1984)

Usciva quarant'anni fa oggi "Born in the U.S.A.", settimo album del cantautore rock americano Bruce Springsteen, accompagnato nuovamente dalla sua E-Street Band dopo la parentesi acustica di "Nebraska". Uno degli album più venduti di sempre, uno degli album più rappresentativi degli anni ottanta.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/4xrs5edv)

Pronto a una nuova sorprendente virata in una carriera che non vuole lasciar sedimentare, Bruce Springsteen, dopo la parentesi acustica di "Nebraska", cupo album per sola chitarra, armonica e voce realizzato in assoluta solitudine, ritorna a casa dalla E-Street Band e passa due anni a lavorare sul seguito di "The River" (1980), doppio LP che aveva consacrato la seconda fase della sua carriera, quella cominciata con "Born to Run", quella che abbandonava i registri jazz e sinfonici per instaurare un nuovo stile asciutto che sapesse coniugare Bob Dylan e il rock come nessuno prima di lui.

Per "Born in the U.S.A.", Bruce non cambia di una virgola il suo stile di scrittura sanguigno, popolare, meditabondo, narrativo, immaginifico, ma semplicemente sceglie uno stile di produzione eighties, con batteria bombastica e tastierine cheesy, lasciandosi dietro le spalle tanto il suono del rock classico anni settanta quanto il folk alla Woody Guthrie.

Se è la produzione a regalargli una attualità che lo premia, sono sempre e comunque le canzoni il cuore pulsante della sua musica: la title track, dedicata a un veterano del Vietnam in piena crisi personale e finanziaria durante la recessione reaganiana, con una delle interpretazioni vocali più rabbiose mai esibite dal Boss; la trascinante working song di ispirazione blues'n'roll "Working on the highway"; "Bobby Jean", dedicata all'amico fraterno Steve Van Zandt che ha deciso di lasciare la E-Street Band al termine delle registrazioni del nuovo album; la relazione fallita di "I'm going down"; l'irresistibile, ottimistico romanticismo di "Dancing in the dark", con indimenticabile riff di tastiera e un ritornello grintoso e sognante; il dolore crepuscolare della conclusiva "My hometown", altro giro di tastiera strappalacrime e altro desolato quadro dell'America suburbana, del New Jersey in cui si perdono potere d'acquisto, lavoro, speranze. Nelle sue canzoni, Bruce continua a cantare le vite di americani ordinari della fascia suburbana, in un'era di recessione e disoccupazione che contrasta completamente con l'edonismo che va per la maggiore sui media, che si tratti di musica (il glam/hair metal americano, il synth pop di importazione britannica, la dance di Madonna, l'r&b di Michael Jackson e Prince) o cinema.

E questo canto del popolare e del popolino evidentemente ancora è un bisogno sentito dalle classi medie e inferiori americane, perché la risposta è colossale in termini di vendite, di critica e di popolarità. È popolare perché la generazione di Bruce e quella appena più giovane che ha vissuto gli anni del punk senza rappresentazione e ora non ha rappresentazione nemmeno nell'era Reagan, nell'era della paura atomica e della guerra fredda di cui ancora non si immagina una fine, è ancora una classe sociale presente, con un suo linguaggio e una sua identità (più spesso bianca che non nera o latina, a onor del vero), con bisogni e miserie, e lo è per l'ultima volta, prima che il grunge, l'eroina, le operazioni di ingegneria sociale della New Left angloamericana e le guerre di Bush jr non spazzino via tutto secondo il diktat thatcheriano: "society does not exist, only the individual exists".

"Born in the U.S.A." ci ricorda, ogni volta che lo mettiamo sul giradischi, che questo non è affatto vero. E che la nostra degenerazione individualistica non è un destino ineluttabile.

- Prog Fox

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