venerdì 24 maggio 2024

David Bowie: "Diamond Dogs" (1974)

Cinquant'anni fa oggi usciva "Diamond Dogs", l'ottavo album solista di David Bowie e ultimo ascrivibile al genere Glam Rock. Apocalittico, cupo e melodrammatico, spaccò a metà la critica del tempo (sul sito di Rolling Stones potete trovare la stroncatura pubblicata al momento dei fatti) ma, oggi, è largamente considerato uno dei dischi notevoli della discografia del camaleontico musicista inglese. Per le anticipazioni del punk e i primi esperimenti con la black music, certo, ma soprattutto per via di una tracklist di alto livello.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/8snvdy7z)

Quando David Bowie rilasciò il suo ottavo album solista, la controcultura nata negli anni '60 era definitivamente archiviata: il movimento hippie era, giá da tempo e in larga parte, adagiato sul fondo dell'oceano, oppure convertito in borghesia rampante o in culti psicotici; la sbornia glam pronta a piegare la sua parabola irreversibilmente verso il basso, e quella prog che pure non si sentiva molto bene. L'anno è 1974, con lo scandalo Watergate alle porte e il riflusso culturale inesorabilmente in atto, pronto a deflagrare nel punk. Il caro David viaggiava sulla cresta dell'onda, forte del successo della combo "Hunky Dory" e "The Rise and Fall of Ziggy Stardust..." che ne avevano sancito l'ingresso nello stardom. La direzione da prendere in seguito all'ascesa del fu Ziggy Stardust non si rivelò tuttavia lineare: "Aladdin Sane", pubblicato nel 1973, era un disco buono ma (auto)derivativo, e la raccolta di cover "Pin Ups" era piú un modo per prendere tempo che uno statement artistico vero e proprio.

Sul finire del '73, David Bowie rientra in studio, questa volta da solo: licenzia Mike Ronson e gli Spiders from Mars, e si separa dal produttore Ken Scott, artefice di arrangiamenti e missaggi di tutti i successi fino a quel momento. Al loro posto viene assemblata una squadra di turnisti per pianoforti, bassi e batterie, mentre sará David stesso a occuparsi della maggioranza di chitarre e sintetizzatori, oltreché occasionnalmente del sassofono; fa il suo ritorno anche Tony Visconti, bassista nei primi due dischi del cantante inglese e deus ex machina al mixer nel resto del decennio, fino al Duca Bianco e oltre. "Diamond Dogs", costruito sulle ceneri di vari progetti naufragati nel corso del 1973 (tra cui un musical su Ziggy Stardust e uno spettacolo teatrale basato sul "1984" di Orwell) viene cosí dato alle stampe nel maggio del 1974, e segna la transizione tra il periodo glam rock, di cui é notevole conclusione, e gli anni più sperimentali, varati con il plastic soul del successivo "Young Americans".

L'opening di "Future Legend" confluisce nella title track, affresco squisitamente rock di un futuro distopico ispirato a Orwell e ai deliri letterari di William Burroughs: nonostante i quasi sei minuti siao una lunghezza forse eccessiva per il materiale, "Diamond Dogs" è una canzone epica, sorretta da un esaltante riff di chitarra e impreziosita da incendiari inserti di fiati su una base ritmica ballabile il giusto. Le influenze artsy e prog sono messe in evidenza dalla pseudo-suite composta da "Sweet Thing", "Candidate" e dalla reprise di "Sweet Thing", ma poi fa irruzione "Rebel Rebel": messi da parte per un momento gli intellettualismi, Bowie traccia il solco per il futuro, e il futuro è semplice, diretto, immediato: assieme ai lavori di Lou Reed e Iggy Pop, "Rebel Rebel" va considerata come la stele di Rosetta del punk che verrá di lí a poco.

Ma si tratta solo di una parentesi: il lato B raddoppia la pompositá glam con "Rock'n'Roll With Me", strepitosa power ballad che è un po' Beatles, un filo Bob Dylan, ma soprattutto parecchio Queen, soprattutto nel sorprendente assolo firmato da Bowie stesso. Le influenze soul e funk cominciano a fare capolino in "1984", ma ci vorrá ancora un anno o due prima che questi boccioli si trasformino in primizie; anche "We Are The Dead" è tutto sommato minore, col suo incedere sbilenco e, di nuovo, una lunghezza eccessiva. A chiudere il disco c'è però un altro pezzo di gran tiro: "Big Brother" risolleva gli animi col suo melodramma oscuro e nichilista e col suo ritornello d'acchiappo, prima che il sipario cali con il rumorismo di "Chant of the Ever Circling Skeletal Family".

Divisivo e cupo, "Diamond Dogs" è oggi considerato un disco fondamentale della discografia di Bowie: il disfacimento della scena rock post-sessantottina ad opera del punk nascente è qui rappresentata come necessaria ribellione: contro il totalitarismo mediatico di un Grande Fratello, certo, ma anche contro il conformismo nel quale si era incistata la rivoluzione dei figli dei fiori. Se volessimo fare una lettura da critico musicale che si prende sul serio, si potrebbe dire che la benda sull'occhio di Halloween Jack, la nuova iterazione della maschera di Ziggy Stardust, rappresenta i segni di logoramento: della scena musicale post-sessantottina, ma anche di Bowie stesso, che da lì a poco si trasformerá lui stesso in uno scheletro per via della spirale di eccessi ("Should we powder our noses?" in "Big Brother") che durerá fino al trasloco berlinese. Fortunatamente il Duca Bianco saprá sopravvivere a se stesso, trasformando l'apocalisse in technicolor di "Diamond Dogs" in un conturbante, astratto surrealismo mitteleuropeo. Di mezzo ci saranno giusto un paio di viaggi transoceanici.

- Spartaco Ughi

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