martedì 21 marzo 2023

Pink Floyd: "The Final Cut" (1983)

Usciva quarant'anni fa oggi "The Final Cut", indubbiamente il più controverso di tutti gli album dei Pink Floyd. A questo punto della loro storia, il tastierista e membro fondatore Richard Wright è stato espulso dalla band, e Roger Waters ha preso l'assoluto controllo creativo della macchina. Il disco, la cui scrittura nasce di getto per la rabbia provata di fronte alla guerra delle Falkland e alla retorica militarista del governo Thatcher, è minimalista e asciutto, composto da ampie parti dedicate al canto sussurrato o parlato di Waters. Le complesse architetture musicali sono scomparse, e la chitarra di Gilmour solo raramente è libera di esprimersi come sa. Waters lascerà il gruppo nel 1985.



(disco completo: https://tinyurl.com/mr42vaub)

Dopo il lavoro su "The Wall", il tour e il film di Alan Parker con Bob Geldof uscito nel 1982, Waters programma la pubblicazione di un disco, il cui titolo provvisorio è "Spare Bricks", in cui mettere nuovi brani scritti esclusivamente per il film (come "When the tigers broke free"), completati da alcune nuove canzoni. La guerra delle Falkland, però, fa scoppiare di rabbia il sempre pacato Roger, che decide di trasformare l'album in "The Final Cut", un concept antimilitarista, nel quale riflette sulla guerra a partire dalla morte del padre Eric nel 1944 durante la Battaglia di Anzio ("When the tigers broke free", "The Fletcher Memorial Home") per concludere con l'apocalisse nucleare della conclusiva "Two suns in the sunset".

Concept interessantissimo e testi di Waters assolutamente da leggere: ma il problema principale di "The Final Cut" è che suona come una collezione di brani scartati da "The Wall". Cosa che in effetti è vera per almeno cinque canzoni su tredici ("Your Possible Pasts", "One of the Few", "The Final Cut", "The Fletcher Memorial Home", e "The Hero's Return"), e alla quale il chitarrista David Gilmour obiettò, chiedendosi perché canzoni che non erano buone abbastanza da finire in un album doppio dovessero occupare metà di un nuovo album singolo. L'opinione dei suoi soci rimasti, Gilmour e il batterista Nick Mason, non è però richiesta: Waters è molto più prolifico di Gilmour e Mason non è un autore di canzoni, ma un arrangiatore e improvvisatore che non può contribuire compositivamente in questo contesto.

L'idea di ascoltare nuove canzoni dall'atmosfera musicale alla "The Wall" potrebbe non suonare male, ma va considerato che sono passati quasi quattro anni e in "The Final Cut" non si sente nessuna evoluzione musicale significativa in un gruppo un tempo noto per il coraggio e le sperimentazioni; anzi, senza Wright abbondano arrangiamenti orchestrali, mentre sono pressoché scomparsi gli assoli di Gilmour e la verbosità di Waters riempie ogni spazio di un gruppo che una volta sapeva librarsi in lunghe digressioni strumentali. Ovviamente nessuno si aspetta né vorrebbe un ritorno a "Dark Side of the Moon" o "Atom Heart Mother"; ma nessuno si era lamentato di "The Wall", che pure non era certo il classico disco di progressive rock con le suite pinkfloydiane.

Il disco viene così strutturato sulla base di lunghe canzoni pensose, caratterizzate dalle verbose, ma comunque interessanti, riflessioni politiche di Waters. Nessuna di queste canzoni è brutta di per sé, ma semplicemente ce ne sono troppe: "The Post War Dream", "Your Possible Pasts" (con un intenso ma breve assolo di Gilmour), "The Gunner's Dream" (con lo struggente sax tenore di Raphael Ravenscroft), "Paranoid Eyes", "The Final Cut".

Inoltre, gli interludi, che già erano un problema in "The Wall", anche se assolutamente trascurabile in quel contesto, diventano una piaga che rallenta e fa inciampare un disco già poco dinamico ("One of the few", "Southampton Dock"). Quasi metà dell'album risulta quindi, se mai brutta o irrilevante, quantomeno trascurabile. Peraltro, bizzarria nella bizzarria, Waters decide alla fine di non includere "When the tigers broke free", che pure è uno dei pezzi più interessanti del lotto, reinserendolo in scaletta solo nella riedizione del 2004.

Alla fine i pezzi più interessanti sono quelli che si discostano dalla amorfa base di pop rock orchestrale che avvolge buona parte del disco: la minacciosa "The Hero's Return" e i due brani finali: "Not now John", unico pezzo cantato da Gilmour, aggressivo rocker imparentato anche troppo con classici del passato (come "Money" e "Run like hell") e la poetica, equilibrata e ben strutturata "Two suns in the sunset", il migliore dei pezzi sui tempi medi, che descrive la fine del mondo con l'apparizione del 'secondo sole', segnale dell'esplosione atomica definitiva, e vede il sessionman Andy Newmark prendere il posto di un confuso, esausto Nick Mason alla batteria.

Facile immaginare come questo disco sia divenuto uno dei più controversi della carriera dei Pink Floyd, detestato da molti fan dell'era classica, difeso dai fan schierati dalla parte di Waters, anche a causa di ciò che avvenne dopo le registrazioni del disco. Sempre più deciso a interpretare il ruolo di cassandra dell'occidente e indipendente coscienza critica del rock, quel ruolo che in fondo occupa ancora oggi in contrasto con gente irrimediabilmente del mainstream come Bono, nel 1985 Waters taglia i ponti con i suoi compagni e dichiara il gruppo defunto, per dedicarsi alla carriera solista. Gilmour e Mason non saranno d'accordo. Ne nascerà una orribile causa legale che rovinerà per sempre i rapporti fra Gilmour e Waters e l'immagine dei Pink Floyd.

- Prog Fox



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