mercoledì 22 marzo 2023

Depeche Mode: "Songs of Faith and Devotion" (1993)

Usciva trent'anni fa oggi "Songs of Faith and Devotion", ultimo album della classica formazione a quartetto dei Depeche Mode, ed ennesimo capolavoro del gruppo inglese. Dopo un estenuante, interminabile tour promozionale durato 14 mesi, piagato dalla dipendenza dalle droghe del cantante Dave Gahan, il principale arrangiatore Alan Wilder lascia la band, che sembra destinata allo scioglimento. Non sarà così.



(disco con tracce extra: https://tinyurl.com/mr2b7u7x)

Il poeta dice che “Non si esce vivi dagli anni ’80”, e questo è vero per la quasi totalità delle band cardine del movimento, anzi dei movimenti, del decennio del riflusso. Le eccezioni sono poche, e alla mente ne emergono solo tre: gli U2, capaci di trasformare il peculiare suono del loro post-punk in un marchio di fabbrica che li porterà, con “Achtung Baby” e “Zooropa”, al vertice della catena alimentare del rock per almeno un paio di decenni in più; i Cure, cui Robert Smith deve solo scambiare i sintetizzatorini di “Disintegration” con i distorsori fantozziani di “Wish”, per catturare una versione personale dell’angst grunge che va per la maggiore nei primi ’90 ed essere, oggi, forse la più longeva band del mondo, capace di generare hype per un nuovo disco rimandato e rimandato da un decennio ormai. La terza band, ovviamente, sono i Depeche Mode cui, dopo aver seppellito il synthpop con “Violator”, basta mettere il tuttofare Alan Wilder a campionare una batteria “fisica” e alzare il volume sui propri, di distorsori fantozziani, per trasformare l’algida elettronica dei Mode di fine anni ’80 in un rovente industrial rock virato al blues e al gospel. “Personal Jesus” esteso su un intero LP, con la voce torrida di Dave Gahan che può trovare il palcoscenico sonoro ideale per mettere in scena la nuda oscurità della propria anima, cantata con il cuore in mano.

Innegabilmente la recrudescenza del “rock-rock” spinge i Mode (oltre ai tre succitati bisogna nominare anche il compianto Andrew Fletcher, “uomo qualunque” e perciò cuore pulsante di una band troppo spesso considerata “fredda”) verso suoni più distorti e, come detto, all’abbandono delle batterie elettroniche, soppiantate da loop registrati da una batteria vera. Pochi dettagli fanno una differenza abissale, e il quartetto potrebbe essere confuso per una band di esordienti se non fosse per il songwriting, semplicemente fuori scala per proprietà di linguaggio, sicurezza dei propri mezzi e, in una parola, qualità. A canzoni come “In your room” e “Walking in my Shoes”, facilmente immaginabili con un arrangiamento pienamente synthpop se registrate solo 3 anni prima, basta cambiare il riverbero sulla voce e il bilanciamento delle chitarre per diventare pezzi rock pienamente contemporanei, venati di sonorità adiacenti allo shoegaze; “Rush” e “Higher Love”, allo stesso modo, beneficiano dei suoni industriali dei NIN e delle batterie umanizzate, pur rimanendo inconfondibilmente canzoni dei Mode. Certo, ci sono anche i lanci ad effetto, che ti sorprendono con la loro traiettorie: è il caso dell’opening “I Feel You”, blues rock di soverchiante violenza, ma anche di “Condemnation”, gospel impreziosito da un’interpretazione al limite del reale di Gahan. Il cantante è qui all’apice della propria carriera, sia per il timbro vocale, ruvido e animalesco, che per l’interpretazione, talmente aderente alla dorsale tematica del disco, basata sul dualismo piacere/colpa, da rendere necessario ricordare che i testi, come anche le musiche, sono sempre scritti da Gore.

Chi scrive si prende la responsabilità di indicare “Songs of Faith and Devotion” come il vero, definitivo capolavoro dei Mode. Non l’unico, certo, perché “Violator” non ha cessato di esistere e perché anche prima i dischi fenomenali non mancano (tra parentesi, meglio “Black Celebration” o “Music for the Masses”? O ci accontiamo del live “101” per riassumere un decennio fuori scala?). Mai prima, e di certo non dopo, i Depeche Mode saranno così veri, così puri, così violenti. Non arriveremo ad insinuare che a questo punto abbiano già detto tutto ciò che avevano da dire, ma di certo, dopo 12 anni di carriera e una decina di uscite tra album raccolte e live, lo hanno detto in tutti i modi di cui sono capaci. Nel 1995 Wilder lascerà la band, spossato da un tour mastodontico e dai mancati riconoscimenti per il suo contributo al suono della band; nel ’96 Gahan sfiora la morte per overdose, o per suicidio (ma in fondo qual è la differenza?), e non riuscirà più a ripeterrsi su questi livelli, anche se le sue qualità di performer rimangono intatte anche oggi. Se è possibile affermare che dopo “Songs of Faith and Devotion” i Mode raggiungeranno il plateau, è pertanto logico concludere che quest’album segna il vertice compositivo, sonoro, ma soprattutto tematico e interpretativo di una carriera leggendaria, e procederanno verso una maturità ricca e fruttuosa. Son meglio loro.

- Spartaco Ughi

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