martedì 28 marzo 2023

Led Zeppelin: "Houses of the Holy" (1973)

Esce il 28 marzo del 1973 "Houses of the Holy", quinto album dei Led Zeppelin, una delle massime formazioni rock di tutti i tempi. Disco fra i più eclettici del gruppo, vede gli Zeppelin impegnati nelle proprie composizioni più progressive ("the Song remains the Same", "The Rain Song", "Over the hills and far away", "No quarter") e quelle più scanzonate e autoironiche ("Dancing Days", "Dyer Maker", "The Crunge"). Ennesimo LP clamoroso per Page, Plant, Jones & Bonham.



(disco completo: https://tinyurl.com/5cfjerd6)

Al termine dell'ennesimo tour, quello che promuove il capolavoro senza titolo noto principalmente come "Led Zeppelin IV", i Led Zeppelin sono una band artisticamente e commercialmente del tutto soddisfatta. Quattro album di livello superbo, risultati di vendite clamorosi, e stima da parte dei colleghi. Anche se la critica non è tutta con loro, ai quattro ragazzi inglesi non interessa gran che.

In questo clima rilassato, il gruppo può prepararsi con calma alla fatica del nuovo album. Il chitarrista e leader conclamato Jimmy Page e il bassista e polistrumentista John Paul Jones realizzano uno studio domestico, cosicché quando si incontrano con il cantante Robert Plant e il batterista John Bonham hanno già in mano alcune idee in fase avanzata di sviluppo. Un altro blocco di pezzi vengono invece creati a partire da idee ritmiche di Bonham o da jam del quartetto.

L'origine dei brani condiziona fortemente i contenuti dell'album: si tratta infatti di un disco spaccato a metà, fra brani fra i più complessi del gruppo, influenzati dal movimento progressive e realizzati con elaborate sovraincisioni di chitarre e tastiere, e fra brani scanzonati e ironici, in cui la batteria di Bonham detta il passo e il gruppo si dedica a un groove rock nel quale è evidente come il quartetto non si prenda affatto sul serio.

È questo secondo gruppo di pezzi che non piace molto a molti fan degli Zeppelin: "The Crunge" è una parodia affettuosa dei pezzi di James Brown, in cui però Bonham impone un tempo in 5/4, col chiaro intento di renderlo impossibile da ballare. La stessa fantasia ritmica si trova in "Dancing Days", sonnacchiosa composizione con un Plant decisamente sarcastico. "Dyer Maker", terzo pezzo del lotto, il cui nome non è che una traslitterazione fonetica della parola 'Jamaica', è un pezzo influenzato dal reggae e dal calipso, totalmente inatteso eppure delizioso (ed entra nella top twenty americana dei singoli).

Si può condividere una certa sorpresa, se non proprio un certo scoramento: non ci si aspetta che i Martelli degli Dei si divertano a fare musica; e a posteriori il bassista silenzioso John Paul Jones non si dirà proprio convinto da queste scelte. Forse il problema non è tanto dei pezzi in sé, ognuno dei quali preso singolarmente ha un senso e una ragione, quanto del fatto che, uniti alla conclusiva "The Ocean", altra canzoncina realizzata con poco sforzo che vuole essere un omaggio ai fan (l'oceano, appunto) e che si chiude con una deliziosa coda strumentale, metà del disco è spesa in brani che suggeriscono a qualcuno l'idea del riempitivo.

I Led Zeppelin però sono in una fase incredibilmente ispirata, come testimonieranno le tracce scartate da "Houses of the Holy" e poi ripresentate nel successivo doppio album "Physical Graffiti", ovvero il brano eponimo dell'album, "The Rover" e "Black Country Woman". Unendo questi tre brani scartati agli otto pubblicati, il disco sarebbe stato senza dubbio più equilibrato nella sua struttra e nella sua espressione, e sarebbe stato universalmente considerato un capolavoro come i primi quattro. Ma lo ribadiamo: il problema a nostro parere non sta nella qualità degli otto brani (sebbene "The Ocean" si possa considerare a tutti gli effetti anche da parte nostra un riempitivo), ma nel poco equilibrio del prodotto finale.

Veniamo così ai brani cosiddetti maggiori, due dei quali, "the Song remains the Same" e "No quarter" risultano due epos incredibili che entrano nella storia del rock dalla porta principale, il primo come esaltante, esilarante capolavoro chitarristico ipertrofico di Jimmy Page (con la voce di Plant accelerata lievemente in post-produzione) e il secondo come fantasia tastieristica, cupissima, disperata, invernale e notturna di John Paul Jones, che vogliono dimostrare ai loro colleghi prog rock (come gli Yes o i King Crimson) che potrebbero essere loro la più grande progressive band britannica se solo, come disse George Best a Johann Cruyff, ne avessero avuto voglia.

Per concludere veniamo allora a "The Rain Song", una delicatissima ballata realizzata da Page ancora una volta con complesse sovraincisioni di chitarre acustiche ed elettriche, in cui fa anche uso di accordature alternative, scritta dal chitarrista stimolato da un commento di George Harrison che criticava il fatto che gli Zeppelin non scrivessero ballate - non a caso, gli accordi iniziali della canzone sono una citazione della sua "Something" - e a "Over the hills and far away", l'unico pezzo veramente hard del disco, ennesimo prototipo di un pezzo heavy metal, a partire dalla introduzione acustica per chiudere con l'assolo centrale di Page, passando per le urla sgolate di Plant.

Come abbiamo già detto, "Houses of the Holy" è un disco controverso nella carriera dei Led Zeppelin, che in esso rilanciano e richiamano le polemiche che li avevano interessati al tempo della svolta acustica di "Led Zeppelin III". All'epoca però la loro fuga dalle aspettative di fan e critica si era rivolta al folk, un genere comunque considerato serio; qui invece, lo ribadiamo ancora una volta, il gruppo, e soprattutto il batterista John Bonham, vuole divertirsi e fare esattamente come gli pare, e questo per molti critici e molti fan seriosi è assolutamente inaccettabile. Sbagliano.

- Prog Fox

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