domenica 12 giugno 2022

John Lennon & Yoko Ono: "Some Time in New York City" (1972)

Usciva il 12 giugno di cinquant'anni fa "Sometime in New York City", album di John Lennon & Yoko Ono considerato fra i più controversi della carriera del musicista britannico. Doppio LP mastodontico, autoindulgente, politicizzato, realizzato in una ordalia di musica assieme al genio folle di Phil Spector, ma ha anche dei difetti.




(disco completo: https://tinyurl.com/2p8vrp3c)

Radical-chic: agg. e s. m. e f., iron.

(1) chi, per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali;

(2) autore di “Some Time in New York City”.

Nell’estate del 1972 la coppia Lennon-Yoko incide un curioso disco, il primo delle due disgrazie che l’ex-Beatles penserà bene di co-scrivere insieme alla sua dadaistica sposa (il secondo è Double Fantasy), lasciandole ampio spazio creativo, con ben 3 brani da lei scritti e cantati. Poi, per farci ancora più male, abbiamo pure i coretti urlati nelle canzoni di John.

Trasferiti da poco meno di un anno a New York, i Nostri si immergono nella vita politica e culturale della città, negli anni in cui diviene la fucina della contestazione nella Costa Est; dalla loro casa nel Greenwick Village in pochi mesi diventano il vanto e l’orgoglio dei migliori salotti controculturali. Il loro impegno è ampio e a 360 gradi: si prodigano per la scarcerazione di compagni arrestati per detenzione di marijuana, lottano contro l’oppressione della donna, protestano attivamente contro lo stato abietto delle carceri americane (dopo la famosa rivolta ad Attica). In pochi mesi organizzano e partecipano a decine di rally, manifestazioni, concerti, trasmissioni televisive. L’FBI va in cortocircuito dopo questa escalation e gli inamidati di Washington, temendo chissà quale rivoluzione numero 9 nella Terra dei Liberi da parte di un rivoluzionario inglese, si lanciano in una sorveglianza goffa, inutile e a tratti demenziale. L’accusa? Potrebbe insultare pubblicamente il Presidente Richard Nixon. Avrebbero allora dovuto intercettare e pedinare metà paese, ma sorvoliamo.

Sappiamo tutti che John non nasce come cantore strettamente politico: lui di mestiere fa il cantante e compone elevati Lennonsense. Nonostante ciò, ubriacato dal clima della Grande Mela e dalla febbre politica che pervade il paese, passa circa un anno in trincea, lavorando col pugno chiuso e la chitarra in mano, stilando testi e accordi per un nuovo grande album di protesta. “Some Time in New York City” nasce in questo humus culturale; confuso, urlato, magmatico e soprattutto scarsamente coerente. Lennon avrebbe potuto narrarci questo eccezionale momento storico in qualità di osservatore interessato e distaccato: da cantautore capace, con la sua straordinaria sensibilità, avrebbe certamente riportato con grande arguzia tutte le contraddizioni di un periodo storico così difficile da codificare, anche a distanza di anni. E invece John che fa? Si butta a capofitto nella mischia e con manie di protagonismo fa sue battaglie altrui; forte della sua voce e del megafono della sua indiscussa celebrità diventa il cavaliere senza macchia nelle crociate della demenziale sinistra estrema americana (citiamo Jerry Rubin e Abbie Hoffman del Youth International Party). Il risultato? Un disco che è una specie di reclame della politica di quel tempo, diventato oggi disgraziatamente anacronistico, per brani che sono più degli slogan che delle vere hit.

“Skippa e vai oltre”, canta Caparezza, ma noi siamo generosi, salvando oggi solo “Attica State”, “New York City” e “The luck of the Irish” che forse rimane la migliore del disco (ricordiamo anche la precedente “Give Ireland back to the Irish” di McCartney, sempre sul tema dei fatti del Bloody Sunday).

Considerando i lavori di Paul, “Ram” da solista e il debutto così-così con gli Wings “Wild life”, per la nostra personalissima disfida tra i due beatle, nell’anno di grazia 1972 è palese che il risultato parziale è di 2-1 per McCartney, in recupero causa affaticamento di John. Ma il decennio è ancora lungo ed è scontato che non mancheranno sorprese.

- Agent Smith

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