giovedì 16 giugno 2022

David Bowie: "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars" (1972)

Il 16 giugno di cinquant'anni fa usciva uno dei dischi fondamentali della storia del rock, "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars", uno dei più famosi e celebrati album dell'artista inglese David Bowie - probabilmente assieme al berlinese "Heroes" del 1977 - probabilmente assieme al berlinese "Heroes" del 1977. Uno dei dischi più importanti della storia del rock, concept album di fantascienza apocalittica ed ecologista, segnerà la moda e il look di androgini, omosessuali e queer per decenni, e influenzerà musicisti contemporanei (Lou Reed, Mott the Hoople, New York Dolls, Queen) e successivi, tanto prossimi (Renato Zero, Culture Club, Motley Crue, Twisted Sister) quanto lontani nel tempo (Måneskin).



(disco completo qui: https://tinyurl.com/y8yazjan)

Ci sono ovviamente dei casi in cui si osserva l’album di cui ci si appresta a discutere come fosse una parete di roccia, solida e liscia, chiedendosi: “Da dove posso approcciare questo colosso?”. Cosa resta da dire sul primo successo commerciale di David Bowie, il secondo disco più venduto della sua carriera, la prima (e più potente) delle sue maschere sceniche? Forse proprio da qui bisogna partire, da come il semplice umano Major Tom, scagliato nel profondo dello spazio in “Space Oddity”, “ritorni” simbolicamente sulla terra travestito da alieno androgino, ambiguo e sessualmente trasgressivo per vendere dischi, anche se con la scusa di una battaglia ambientalista/sociale/culturale. Un messaggio meta-rockettaro di incredibile preveggenza, sia per quel che riguarda le derive “buoniste” del rock anglosassone (e Bowie stesso, per dire, sarà uno dei tanti pezzi grossi a partecipare al primo, storico LiveAid) che per l’ascesa della cultura e dell’estetica “queer”, oggigiorno talmente ubiqua da arrivare a vincere a Sanremo e poi sbancare l’Eurovision. A distanza di cinquant’anni, nessun artista che ha cavalcato l’onda dell’ambiguità sessuale, da Renato Zero ai Maneskin passando per le Twisted Sister, può non dirsi Bowieano; nessun rocker attivista a la Bono Vox è immune alla satira preventiva dell’alieno che cadde sulla Terra. Tuttavia, non è un’idea estrema, nè un’opinione controversa, che a rendere davvero speciale quest’album siano le canzoni.

L’album, per farla breve, non contiene riempitivi, solo grandi hit. Anche se non tutte le canzoni della tracklist sono “singolabili”, non c’è un singolo pezzo che non offra una grande emozione. Ispirato agli eroi del rock del periodo, da Lou Reed e Marc Bolan a Jimi Hendrix tra gli altri; supportato da una band leggendaria, gli Spiders from Mars (Mick Ronson, Trevor Bolder, Mick Woodmansey, rispettivamente chitarra, basso e batteria), e co-prodotto da Ken Scott, che poi diverrà una presenza nota dietro ai mixer per tutti gli anni ’70 del futuro Duca Bianco, Bowie confeziona una sequenza di colpi da maestro, esempio quasi proverbiale di disco che è (molto più) della somma delle sue parti. Tra gli arrangiamenti orchestrali, epici senza mai tracimare nel cattivo gusto, dell’opening “Five Years”, le intrusioni di ottoni sexy come in “Soul Love”; il rock’n’roll purosangue di “Hang on to Yourself” e “Star”, o quello torridamente psichedelico di “ZIggy Stardust”, senza dimenticare un singolo inossidabile come “Starman”, una ballatona classica come “Lady Stardust” e i primi esperimenti coi sintetizzatori di “Suffragette City” (che è comunque puro rock’n’roll), non c’è un attimo di pausa, nessun punto basso. Per un disco così massimalista, è quasi miracoloso che non ci sia una nota fuori posto, o anche solo in eccesso. Per un disco che non è un concept, e che anzi fa della varietà di voci narranti (non solo tra una canzone e l’altra, ma anche in una stessa canzone) uno dei suoi tratti distintivi, è davvero straordinaria la sua solidità tematica, che adopera l’ego di Ziggy Stardust (e, di riflesso, l’ego dello stesso Bowie) come tela su cui proiettare sferzanti critiche ecologiche, sociali e di costume che risuonano cristalline ancora oggi, ferma restando la facilità con cui si possono individuare i momenti della storia di Ziggy, dalla sua caduta sulla terra al suo “Rock’n’Roll Suicide”, a definire i contorni di un’opera rock sui generis.

Il suicidio di Ziggy Stardust Bowie lo (com)metterà in scena ad un concerto nel 1973, ritirando dalle scene il suo primo alter ego, prima di perdersi dietro la maschera. Ziggy tuttavia impiegherà molto tempo a essere metabolizzato dal caro David: il disco seguente ne metterà in scena una version spuria, ma ancora chiaramente riconoscibile, “Aladdin Sane” appunto, e la psiche di Bowie sarà molto sofferente, a detta sua, anche a causa del fantasma di Ziggy, almeno fino al 1976. Tra dipendenza da cocaina e paranoie sempre più radicate, e come tutti i grandi performer, Bowie si getta anima e corpo nell’interpretazione di un personaggio che quasi lo possiederà e si salverà per un pelo dall’autodistruzione (e che richiederà un esorcismo per liberarlo completamente, 3 anni dopo… ma questa è un’altra storia).

Sulle fondamenta, anche economiche, di questo capolavoro del rock’n’roll Bowie costruirà la grande ascesa verso lidi via via più sperimentali. Nel 1972, però, Bowie appariva a parte della stampa e del pubblico come un semplice provocatore del rock’n’roll, che usava lo shock e lo scandalo come arma pubblicitaria. Mezzo secolo dopo, non possiamo non vedere “The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” come l’apoteosi rock del più camaleontico istrione della musica del ‘900. Provare per credere.

- Spartaco Ughi

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