venerdì 13 maggio 2022

Moby: "18" (2002)

Usciva vent'anni fa oggi "18", sesto album del musicista elettronico Moby. Come il precedente "Play", col quale sfondò inaspettatamente, "18" è un enorme successo mondiale.



(disco completo: https://tinyurl.com/2hsn85dx)

Ah, il successo. Dopo aver prodotto diversi, buoni dischi di tarda piano-techno, e dopo aver tentato la    svolta punk-rock animalista, Richard Melville Hall (Moby per il grande pubblico) probabilmente non si sarebbe aspettato di vendere 12 milioni di un suo album. Di certo, non con un disco di muzak che mescolava campionamento da vecchie band (dai Creedence ai classici del soul e del blues) con melodie immediate e un mare di malinconia, e che era stato schifato da qualunque etichetta discograficasul mercato alla fine degli anni ’90. E invece, quei 12 milioni di copie lo rendono uno dei blockbuster della musica elettronica, seguito da un mastodontico tour promozionale che tiene impegnato il musicista di New York per quasi due anni. Zitto zitto, però, Moby torna a casa dopo il tour con un bel block-notes pieno di appunti, e qualche demo registrata in giro per il mondo: il seguito di “Play” è già in gestazione, e vedrà la luce nella primavera del 2002.

Travestito da astronauta su sfondo di cielo azzurro, Moby apre il disco con il singolo “We are all made of stars”, che all’epoca ottenne un grande successo su radio e TV musicali, e che è uno dei migliori brani pop scritti dal nostro newyorkese vegano preferito: il ritmo acchiappa, la struttura è ricca e riconoscibile, e i suoi intrecci melodici sono fatti per diventare un classico. Seguono, nel trittico di apertura, “In thisworld” e “In my heart”, che pur nella loro godibile orecchiabilità segnalano qual è il punto debole di “18”: quasi mai, e forse inevitabilmente, il seguito di “Play” riesce a discostarsi in maniera apprezzabile dal Moby-sound scritto nella pietra (miliare) dal suo predecessore. La questione è ben riassunta dall’ascolto di “One of these mornings”, che è un po’ un calco in gesso di “Why does my heart feel so bad?”. Vero è, comunque, che i brani interessanti non manchino, a partire dall’altro hit singolo estratto, “Extreme ways”: un mid-tempo molto melodico che riesce, grazie all’uso intelligente dei sintetizzatori e ad un testo immediato, ad esprimere l’epica esistenzialista del rock nel bel mezzo di un album easy listening; ad essa segue il succoso hip hop di “Jam for the ladies”, divertente e ricco di personalità, e più avanti “The rafters”, EDM d’altri tempi con le solite melodie malinconiche, ormai marchio di fabbrica, appena appoggiate sopra, come un velo. Sono forse proprio questi tocchi di moby-ismo, questi archi così riconoscibili, a invitare il confronto con “Play”, specie nei brani più lenti: pur bellissime, la title track, “Look back in” e “Harbour” (tra le altre)sembrano un poco manieriste, pur essendo perfettamente funzionanti nel disegnare un’atmosfera definita.

Senza voler fare un’analisi traccia per traccia, “18” lo sia può riassumere con un: è il seguito di “Play”, quasi altrettanto bello, e anzi forse dotato di singoli più pop che denotano una crescita del Moby songwriter; certamente, però, non può ambire allo stesso posto nella storia della musica, per il semplice fatto di essere un sequel. Comunque certamente bellissimo, è secondo solo cronologicamente rispetto al capolavoro più noto. Merita un ascolto, e probabilmente ne avrà ben di più.

- Spartaco Ughi

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