domenica 12 settembre 2021

St. Vincent: "Strange Mercy" (2011)

Usciva dieci anni fa oggi "Strange Mercy", terzo album della cantautrice e sperimentatrice americana St. Vincent, una delle personalità più importanti della musica pop e rock dell'ultimo decennio. Non solo disco della maturità, ma forse disco migliore di una carriera che avrebbe ancora garantito picchi elevatissimi.



La parabola di St Vincent, la sua carriera, prese decisa la curva che sta ancora percorrendo circa dieci anni fa, quando Annie Clarke, vero nome della cantante, chitarrista, polistrumentista e compositrice di Tulsa, mise sul mercato questo “Strange Mercy”, terzo album in proprio dopo le collaborazioni con Polyphonic Spree e Sufjan Stevens.

Smussate le ruvidezze naif dell’indie pop-rock degli esordi, St Vincent si apre a influenze più variegate: poliritmie e melodie sbilenche d’area Talking Heads, distorsioni tangenti l’industrial e nuovi livelli di sofisticazione pop (ma senza rinunciare del tutto alle zampate di puro rock).

L’opener “Chloe in the Afternoon” traccia, in un certo senso, le coordinate: ad atmosfere eteree ed ariose si sovrappongono melodie bizzarre e dissonanti, su sintetizzatori caleidoscopici si sovrappongono schitarrate nervosamente distorte: gli opposti si attraggono senza amalgamarsi, il mood generale è, come detto, quello di un’intellettualismo magari un po’ pretenzioso, ma certamente riuscito nella sua ambizione avanguardista.

“Cheerleader” e la title track ripropongono questi stessi ingredienti in forme nuove, schizofrenica power-ballad pop-rock la prima, ballad fatta e finita, ma malinconica e conturbante, la seconda. Completano il lato A dell’album “Northern Lights”, sgraziato rock di matrice Byrnesca, e due dei pezzi più forti dell’album, nonché highlight dell’intera produzione di St Vincent: il singolo electropopsinfonico “Cruel”, prima vera hit di Clarke, e “Surgeon”, appropriatamente tagliente rock elettronico che parte piano e poi va in crescendo, fino a deflagrare in un assolo di chitarra synth degno di Adrian Belew (come il riffone di “Cruel”, d’altro canto).

Ad aprire il lato B c’è un altro pezzo forte come “Neutered Fruit”, che al rock obliquo di “Chloe in the Afternoon” aggiunge chitarre grunge e psichedelia, crescendo anch’esso verso un climax di dissonanza sgraziata, e la delicatissima “Champagne Year”, ballad fatta di droni elettronici e pochi arpeggi di chitarra che renderebbe orgoglioso Brian Eno.

L’amalagama “sinfonico” di suoni e ritmi di “Dilettante” e il ritmo incalzante di “Hysterical Strength” diverranno la bozza dell’intero album seguente di Clarke, mentre un’altra power ballad, “Year of the Tiger”, dà il congedo all’ascoltatore su rumori elettronici di matrice industrial, anche se la voce cristallina non permette di andare davvero in territori sporchi e cattivi, e lascia il tutto sospeso nell’inquietudine.

“Strange Mercy” è un album pieno di creatività, ambizioso e sfaccettato: un disco eccellente, punto. In retrospettiva, potremmo quasi chiamarlo il migliore di St Vincent tout court, in cui l’irruenza della gioventù è ancora presente, mentre comincia a fiorire quell’attitudine sperimentale che poi darà i suoi frutti in “St Vincent”.

“Cruel” e “Surgeon” da soli valgono il biglietto, ma il resto dell’album non è da meno. Provare per credere.

- Spartaco Ughi

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