Il 24 settembre di trent'anni fa usciva "Nevermind", secondo album in studio dei Nirvana. Massima band del grunge? Forse. Miglior disco del grunge? Può darsi. Album più importante della musica grunge? Senza alcuna ombra di dubbio. L'album che, non da solo ma sopra a ogni altro, ha trasformato il grunge in musica del popolo, musica di un popolo, musica della Generazione X. Nessun autore del rock come Kurt Cobain aveva avuto questa statura messianica e maledetta dai tempi di Jim Morrison. Non fu un buon auspicio.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/5f4ctyk4)
Un punto che a molti sfugge è che che "Nevermind" è davvero un grandissimo disco. Anche dopo la prima traccia, anche dopo quello che è successo in questi trenta anni, anche dopo la trasfigurazione dell'icona di Kurt nel Jim Morrison biondo, anche dopo che "Smells Like Teen Spirits" è diventata inascoltabile cover di se stessa.
"Nevermind" è un disco della madonna, è un urlo senza fine e senza nome. E' assolutamente coerente nelle sue contraddizioni: prodotto in modo quasi patinato, come se si volesse mettere una mano di vernice su del legno scorticato, ma alla fine roco nei suoni di base e nichilista - al limite dell'irritante - nei testi.
Derivativo ma - per qualche oscuro motivo - rivoluzionario e epidermicamente "nuovo" al primo ascolto dell'epoca.
E' perfetto per rappresentare una generazione a cui davvero non importa nulla di niente ma che ha le ferite di tale disinteresse incise nella pelle. Incise come da lame di rasoio: il disagio e la necessità di fuga dallo schifo ("Gotta find a way, a better way") diventano paralisi ("I'd better wait!").
Il futuro fa schifo, ma conviene non preoccuparsi: la rivoluzione è una t-shirt, la rivoluzione è solo un'immagine, la rivoluzione è prendere le giuste pastiglie per fare stare quieta la bestia.
Ogni brano di "Nevermind" è disturbante e eccitante nello stesso modo: con il disagio ed il vuoto interiore convivono post-punk e martello rock.
Ogni brano di "Nevermind" è ugualmente sincero ed è ugualmente falso. Il furore caotico di "Territorial Pissing", la potenza di "In Bloom" e "Lithium", l'ipnosi di "Come as You are", il delirio di "Endless/Nameless", il confessionale spettrale di "Something in the Way". In tutti questi brani, Kurt Cobain si mette a nudo vestendosi con una maschera diversa e cambiando travestimento.
Il confine tra disagio sapientemente allestito e messo in mostra per stupire i borghesi (entrando in heavy-rotation su MTV) e creativa overdose di vero malessere è sfumato, ad arte e con capace maestria.
Ma, diciamolo onestamente: chi se ne frega se "Nevermind", allo scoccare dei trent'anni di età, è stato cannibalizzato ed è diventato la sua stessa nemesi. Un'icona autoriferita, un santino votivo, un atto di normalizzazione giornalistica e culturale della ribellione. Come premesso, "Nevermind" è un'opera che nasce (più o meno volutamente: ma tant'è nei fatti...) come contraddizione, come negazione dei propri stessi termini.
Come accettazione di una diversità e come stesura in bella copia, e ad uso delle masse, di un rifiuto e di una repulsione.
Tanti - forse troppi - hanno ascoltato questo disco bevendo solo il primo sorso del calice.
Tanti - forse troppi - hanno parlato di questo disco, pensando che il discorso si esaurisse alla prima traccia e alla prima maglietta indossata.
Ma cosa importa, alla fine.
Quello che conta è che ci sia un posto, nascosto tra le tracce di questo disco, in cui rifugiarsi e scappare.
Un'isola su cui riposare, indossare degli occhiali neri, dei jeans strappati, magari una parrucca bionda. A doverosa distanza dal mondo, dagli altri e soprattutto da se stessi.
Siamo qui, siamo soli, siamo una tribù: va tutto male, va tutto malissimo, ma - davvero - non preoccupiamoci. Godiamoci l'anestesia finchè dura: per una volta, per un momento riusciamo davvero ad essere noi stessi. Vuoti, insensati e sgradevoli. Ma, per una volta, davvero noi stessi fino in fondo.
- il Compagno Folagra
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