Il 22 settembre di quarant'anni fa, dopo sette anni di assenza, facevano il loro ritorno sulle scene i King Crimson - ed era l'ennesimo capolavoro. Con il padre-padrone Robert Fripp (chitarre) troviamo il vecchio compagno di viaggio Bill Bruford (batteria) e i nuovi Adrian Belew (voce, chitarre) e Tony Levin (basso, stick). Il progressive degli anni settanta si è fuso indissolubilmente con lo spirito new wave distillato da Fripp negli anni da sessionman per David Bowie, Brian Eno, Peter Gabriel, Talking Heads...
(disco completo qui: https://tinyurl.com/9kf3hwwz)
Nel 1974, Robert Fripp decideva di sciogliere definitivamente i King Crimson, profetizzando con il capolavoro “Red” la fine del mondo. Ritiratosi a ricerca spirituale, probabilmente si accorge a malapena del fatto che la fine che lui aveva visto era “solo” la fine dell’era prog, caduta come l’impero romano sotto la pressione della barbarie punk. Fripp sarà poi uno dei santoni a ricostruire la civiltà nel post-, tra collaborazioni prestigiose (Eno, Talking Headss) quando non leggendarie (“Heroes”) e progetti solisti come la band pop “League of Gentlemen”. Alla fine del 1980, con in mente l’idea di ritornare sulla scena che conta, richiama a sé Bill Bruford, batterista straordinario, già con lui nella precedente incarnazione dei Crims (e, prima ancora, con gli Yes); a loro si aggiungeranno Adrian Belew, chitarrista e vocalist di caratura, ex Zappa e poi a sua volta nel giro di Bowie e Talking Heads; e Tony Levin, bassista fuori scala, collaboratore fisso di Peter Gabriel conosciuto da Fripp durante le registrazioni del secondo disco solista di quest’ultimo. Il quartetto avrebbe dovuto chiamarsi “Discipline”, e avrebbe continuato sulla scia della “musica suonata con la testa, e non con i piedi”, come da tradizione della casa. Al principio dell’81, durante le registrazioni dell’album con il produttore Rhett Davies (già con Genesis, Roxy Music, e Eno stesso), la vecchia ragione sociale verrà rispolverata e messa a campeggiare sulla meravigliosa copertina rossa (con iconico nodo celtico) di quest’album, che a sua volta si chimaerà “Discipline”: il mondo non è finito, ma certo è cambiato parecchio.
L’album è spiazzante: ispirato al post-punk dei Talking Heads, ma suonato da quattro musicisti mostruosi, non solo tecnicamente istrionici ma anche dotati di pirotecnica inventiva: una delle band più tecnicamente dotate e creative della storia. Alle ovvie ascendenze jazz si sovrappone il debito verso i suoni del gamelan, musica tradizionale del sud est asiatico, caratterizzata da intrecci di linee melodiche, risonanze e armonie sorprendenti, e ritmi dilatati: “Discipline” può certamente essere classificato come rock, ma è scritto e suonato con tale precisione da potersi permettere l’altisonante definizione di “musica da camera elettrica”. L’estrema astrazione intellettuale dei sette brani qui presenti potrebbe spaventare l’orecchio meno avvezzo, che li taccerebbe di essere freddi esercizi di stile; d’altra parte, è difficile non esaltarsi di fronte alla ragnatela di suoni messa in piedi da Fripp e soci.
Manifesto del nuovo corso è l’opening “Elephant Talk”, in cui la chitarra di Belew prima barrisce (dando così il titolo al brano), poi si si incastra con precisione maniacale agli arpeggi di Fripp, e infine vi si sovrappone, in un doppio assolo simbiotico che va riascoltato più volte per apprezzarlo appieno (come tutto l’album, del resto). “Frame by Frame” continua sulle stesse coordinate, tra vertiginosi cambi di tempo e impasti vocali tra Levin e Belew, per un altro brano di travolgente energia; “Matte Kudasai” è invece una ballad che col tempo è diventata un classico, struggente con i suoi gabbiani alla chitarra (altro marchio di fabbrica del rumorista Belew) e le invocazioni della voce di Belew, non certo degna del bel canto ma di sicuro espressiva. Chiude il lato A la folle “Indiscipline”, delirio di tempi irregolari e chitarre ululanti, con Belew a cantare le lodi dell’istinto nel processo creativo. Il lato B si apre con “Thela Hun Junjeet”, anagramma di “Heat in the Jungle”: ispirata da un episodio realmente accaduto a Belew, che era uscito in cerca di ispirazione ed era stato importunato prima da una gang e poi nientemeno che dalla polizia di New York, è un brano ipercinetico, forse il più vicino ai Talking Heads nel suo groove tiratissimo. “The Sheltering Sky” è uno strumentale di oltre 7 minuti, un brano di psichedelia eterea e conturbante ispirato all’omonimo romanzo beat di Paul Bowles; chiude il disco la title track: altra orgia di cambi di tempo, è in pratica un gamelan suonato con precisione a orologeria, un brano esaltante nella sua algida perfezione, vetrina della rinnovata ambizione del Re Cremisi all’alba di una nuova era del rock.
Mentre gli altri giganti del prog si avviavano verso un irreversibile crepuscolo più o meno lungo e luminoso, i King Crimson riemergevano di nuovo dal proprio bozzolo con una metamorfosi che li mise perfettamente al passo coi tempi: non solo a proprio agio, ma di fatto indistinguibili, per attitudine e qualità creative, da artisti più giovani di due o tre lustri. “Discipline” sarà altrettanto influente di “In the Court of the Crimson King” e “Red” nei decenni seguenti, solidificando lo status dei Crims come band progressive per eccellenza, poiché capaci di *progredire* attraverso (almeno) quattro decenni senza sembrare mai “vecchi”, un privilegio di cui pochi artisti in assoluto possono fregiarsi. Cose pazze, pazze e meravigliose.
- Spartaco Ughi
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