Veniva pubblicato vent'anni fa oggi "It's a wonderful life", album degli Sparklehorse, progetto guidato dal cantautore americano Mark Linkous, qui affiancato da ospiti di primo piano quali Nina Persson dei Cardigans, PJ Harvey e Tom Waits in quello che forse è per Linkous l'album della raggiunta maturità.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/3n7hs5ux)
Ci sono persone che nelle fotografie non vogliono comparire e se compaiono fanno in modo di apparire sfocati, di traverso, con mezzo viso lungo i bordi.
Per esserci ma per non essere visti nè violati, nè invasi, quasi che la foto fosse un furto di anima o peggio.
Mark Linkous è stata una di queste persone: prima di sparire del tutto, ha continuato a scattarsi fotografie in cui la luce è troppa o troppo poca e in cui il suo volto appare ma non è certo in primo piano.
Se ci fosse, insomma, un modo per raccontare la timidezza e la ritrosia in musica, di sicuro sarebbe un disco degli Sparklehorse.
"Its a Wonderful life", terzo disco della one-man-band di Linkous, è già dal titolo una carezza agrodolce e liemente ironica. Chi conosce Linkous, chi sa dei suoi demoni, non può non cogliere la distonia tra la "vita meravigliosa" e la reale cifra delle opere degli Sparklehorse.
La canzone di apertura, la title track, non smentisce tale orizzonte emotivo: il consueto carillon suona quasi inquietante e beffardo, il testo è un cut di immagini oniriche e non particolarmente rassicuranti ("i wore / a rooster's blood / when it flew/ like doves") e il ritornello è incastrato in modo perfettamente ambiguo: la vita è meravigliosa, ma non ci crediamo davvero.
Il disco, va detto, nasce sotto gli auspici di una produzione sontuosa e curata: il low-fi dei meravigliosi episodi precedenti viene ovviamente mantenuto ma questa volta le cose si fanno in grande. Ci sono Nina Persson dei Cardigans alle seconde voci, PJ Harvey e sua maestà Tom Waits come collaboratori per la stesura di alcuni brani e produttori di prim'ordine come Parish ad affiancare Mark.
E' un giro di giostra nel giardino buono dell'indie e il risultato non delude le aspettative. Se "Gold Day" è un brano meraviglioso e (per una volta) completamente solare, su cui la Persson versa un dolce miele, i pezzi che coinvolgono PJ Harvey ("Piano Fire", "Eyepennies") sono più consueti ma non per questo meno riusciti.
Mentre "Apple Bed" è probabilmente il cuore emotivo del disco, con ancora una volta il testo a rincorrere ossessioni e richieste di pace irrisolte ("I wish I had / A horse's head / A tiger's heart / An apple bed"), la collaborazione con Waits ("Dog Door") risulta invece sì gradevole ma più catalogabile come esercizio di stile.
Ma detto questo: se si può usare il termine, spesso abusato, Linkous confeziona il disco della maturità, compositiva e stilistica. Dai binari ben noti non si deraglia, la continuità con i predecessori è chiara, ma lo spessore e la coesione sono accresciuti.
Sembrerebbe quindi la chiusura di un cerchio, il raggiungimento di uno status robusto e risolto.
Ma la foto, per Mark, deve restare sempre sfuocata: non si ha mai la pace di una vita meravigliosa, almeno per le persone come lui.
Ci sarà lo spazio per un successore, altrettanto meritevole, di questa opera ma sarà giusto un altro fotogramma saturo e dai contorni incerti.
Poi basta: il peso del "cuore di tigre" (o di tenebra) diventa troppo e allora Mark deciderà di togliersi del tutto dall'inquadratura. Lasciandoci a contemplare il mistero dello sfondo, delle luci distorte e sfocate; il mistero di una meravigliosa ipotesi di vita interrotta e solo sussurrata.
- Compagno Folagra
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