Usciva trent'anni fa oggi "Ten", una delle pietre fondanti del grunge e del rock anni novanta tutto, disco d'esordio straordinario degli straordinari Pearl Jam. Le linee di chitarra di "Alive" e "Jeremy" sono entrate nella storia del rock.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/pc9pt38n)
Chi ha avuto la fortuna di poterlo vivere (chi scrive non è purtroppo tra questi) racconta di diverse istantanee legate al tour di "Ten" che sono entrate nell'anima e nel cuore e che spiegano cosa fossero i Pearl Jam nel 1991.
Quelle più famose sono legate allo stage diving di Eddie Vedder: ripetuto ed ossessivo, folle quasi, con leggendari tuffi da travi e impalcature.
Altre sono meno spettacolari, ma forse più intime e emozionanti: il pubblico che canta l'ultima canzone con Eddie sfinito sul palco che guarda quasi incredulo la folla, il totale coinvolgimento della band nel darsi completamente in pasto alla gente, la sensazione che in questi concerti si celebri una sorta di rituale.
Già, un rito, una celebrazione: nel 1991 a Seattle e dintorni rinasce - per l'ennesima volta - il rock (o meglio: si assiste ad una delle sue innumerevoli reincarnazioni). La celebrazione è, vivaddio, la celebrazione di una (ri)nascita.
Parlare di "Ten", esordio del 1991 dei Pearl Jam, è infatti come raccontare di un fiume, che va a crearsi grazie ai suoi affluenti: una linea d'acqua nuova e germinante in cui confluiscono rivoli e torrenti, che in essa acquisiscono peso specifico ed identità.
Tutti i rigagnoli hanno portato il loro contributo: il decennio appena chiuso, nei dintorni delle fangose rive del Wishkah (e non solo lì), è stato un germinare di idee, opportunità, gruppi, amicizie, separazioni, perdite.
Parallelamente, la "wave" principale in cui naviga il beneamato rock è incerta e sicuramente ad un bivio. Certo, eppur qualcosa si muove: gli stadi stanno iniziando a riempirli gli U2, Axl Rose e Slash recitano il loro copione (testosteronico e di maniera, ma di certo e facile successo, anche se di non ampissimo respiro), Springsteen sta per diventare "classic"; l'encefalogramma non è completamente piatto.
Ma c'è pure spazio per nuove etichette e nuove chiavi in cui declinare la triade "chitarra-basso-batteria": l'hard rock rimasticato in chiave emotiva e più intima che si va a consolidare dalle parti del suddetto fiume entra perfettamente nella casella mancante del puzzle mainstream.
Non è, "Ten", l'unico pezzo che si incastra nella figura: ce ne son altri, senza dubbio. Ma è senza altrettanto dubbio una delle più riuscite tessere del mosaico.
La gestazione del disco è articolata: in gran parte le canzoni nascono da intelaiature imbastite da Gossard e Ament, intuizioni melodiche buttate giù nel periodo di transizione post-"Mother Love Bone". Su questi pezzi, in gran parte già completi, si innestano (con miracolosa perfezione) i testi di Eddie e il lavoro di McCready e del produttore Parashar: le demo diventano immediatamente brani finiti e il disco è pronto per diventare la pietra miliare che è.
Pietra miliare, senza nulla togliere a tutto il resto, "Ten" lo diventa soprattutto per il contributo alla miscela che dà Vedder. Come direbbero gli U2, Eddie è "the spark that set the flame". I suoi testi sono vere e proprie storie, personali ma subito universali; la sua voce quel marchio di fabbrica che subito avvolge, esalta e conquista.
Si parte con il ruggito di "Once" e di "Even flow", ci si abbandona emozionati ai cori di "Alive", si resta sgomenti davanti alla quadratura del cerchio che rappresenta "Black": un macigno emotivo, una canzone di amore e perdita ("I know you'll be a star/ In somebody else's sky, but why/why, why can't it be, why can't it be mine"), così distante per lirismo e sincerità dalle contemporanee - asettiche e plastiche - love song da classifica.
Vedder è maturo sia nella scrittura che nell'interpretazione: anche nei punti più interlocutori e statici del disco ("Oceans", "Deep", "Garden") la sua voce segna comunque il sentiero in maniera nitida e non confondibile.
A testimoniare il felice momento creativo del gruppo ci saranno anche molte splendide tracce extra-disco che diventeranno classici del repertorio dei Pearl Jam ("Yellow Leadbetter", "State Of Love And Trust", "Footsteps").
E restando a "Ten": "Jeremy" è (con "Alive") la testa d'ariete per sfondare (ma con che merito e che classe) nelle heavy rotation, mentre l'epocale "Release" chiude il disco e si candida, come spesso sarà nelle migliori occasioni, per essere il punto di ingresso al rito "live". Una canzone meravigliosa, che nasce dallo spegnersi di un temporale estivo, di quelli che capitano poco prima della sera.
La pioggia è finita, in lontananza c'è ancora qualche nube ma si scorgono già dei tratti di cielo. Le luci si accendono, la chitarra inizia l'arpeggio e Eddie prende un bicchiere di vino ed inizia il suo racconto ("I'll ride the wave/Where it takes me/I'll hold the pain/Release me").
Non è quindi solo nel rapporto quasi carnale, ricercato nello stage diving sopra citato, che vive la relazione tra Vedder ed il pubblico; nel rito messianico, fatto di contatto fisico e condivisione di sudore e corpo.
I Pearl Jam riescono a creare da subito un fortissimo legame anche emotivo e di fratellanza epidermica; il torrente inizia a scorrere e tutti, Eddie e Stone compresi, facciamo parte dello stesso fluire.
Nel 1991 ci siamo anche noi su quel palco, con i pantaloni strappati, i cappelli di traverso, gli occhi allucinati, stanchi ma contenti, le magliette a quadretti.
Anche se siamo dall'altra parte del mondo e dell'oceano: il fiume lo attraversa e porta fino a qui le sue acque.
- Compagno Folagra
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