mercoledì 21 luglio 2021

Fabrizio de André: "Indiano" (1981)

Il 21 luglio di quarant'anni fa veniva stampata la prima edizione del disco omonimo di Fabrizio de André, anche noto come "Indiano" o "disco dell'Indiano". Si trattava dell'ennesimo splendido album del cantautore genovese, il secondo scritto assieme a Massimo Bubola, influenzato enormemente dall'esperienza del rapimento subito in Sardegna.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/dr5p6b7v)

Il 27 agosto del 1979, Fabrizio de André e la compagna Dori Ghezzi vengono rapiti dall'Anonima sequestri in Sardegna, dove risiedono buona parte dell'anno ormai da qualche tempo. Giuseppe de André, padre del cantautore, paga 550 milioni di lire per la loro liberazione, che avviene tra il 21 e il 22 dicembre 1979. Il 23 dicembre, De André racconta ai giornalisti che lo intervistano, parlando dei suoi carcerieri: "Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai".

L'esperienza diviene così centrale per il suo nuovo album, scritto, come il precedente "Rimini", in collaborazione col cantautore veronese Massimo Bubola. Il disco rimarrà senza titolo, ma dalla meravigliosa copertina (un dipinto di Frederic Remington del 1909) verrà comunemente chiamato "Indiano", "l'Indiano" o "Disco dell'Indiano", ed uscirà nel settembre del 1981. L'indiano, naturalmente, è qui metafora del sardo, popolo conquistato e oppresso, colonizzato e disprezzato.

A De André e Bubola si affiancano Oscar Prudente (già collaboratore di Fossati) e Mark Harris, che suona anche le tastiere, come direttori musicali. Il nucleo base dei musicisti comprende inoltre Lele Melotti alla batteria, Pier Michelatti al basso e Tony Soranno alle chitarre.

"Quello che non ho" è una classica canzone di protesta che mette al centro l'indipendenza del cantautore e che fa parte di quella famiglia di brani che include anche "A pugni chiusi" di Pierangelo Bertoli. Musicalmente è un blues che vede la partecipazione all'armonica del bluesman americano Andy Forest, trapiantato da qualche tempo a Bologna. L'urgenza espressiva di De André sta tutta nelle liriche, nelle parole, nei concetti espressi - da qui la scelta di una musica semplice se non ripetitiva, che non sia di ostacolo alla fruizione del testo.

Questa urgenza espressiva influenzerà anche altri brani del disco, con l'effetto collaterale di impoverirne alcuni forse oltre il necessario, facendo loro paradossalmente perdere forza. Oltre a "Quello che non ho", infatti, ne soffrono "Franziska", una versione meno riuscita di "Volta la carta" (dal precedente "Rimini") e il reggae rock "Verdi pascoli", che prova in modo un po' maldestro a usare lo stile giamaicano per tracciare un collegamento fra Cheyenne e Sardi.

Maggiormente a fuoco la dolente "Hotel Supramonte", riscrittura da parte di Fabrizio del brano "Hotel Miramonti" di Bubola. Fulcro dell'album, posto in posizione centrale all'inizio del lato B, la canzone racconta l'esperienza del rapimento con una delle liriche più intense della produzione di De André, questa volta efficacemente nobilitata e illuminata dalla musica minimalista per chitarra acustica, per il basso di Bruno Crovetto e per il violino di Sergio Almangano.

"Canto del servo pastore" e "Se ti tagliassero a pezzetti" completano i brani in stile folk del disco. Basati entrambi su giri di chitarra acustica piuttosto interessanti, con Claudio Bazzari ospite alla chitarra elettrica, sono fra i momenti migliori del disco: commoventi e intense, in particolare la seconda, che fa anche un riferimento straziante alla strage di Bologna del 2 agosto 1980.

Completano il disco due canzoni dallo stile più rock, anch'esse fra le più rappresentative dell'album: "Ave Maria", rielaborazione in salsa progressive di un canto religioso sardo, cantata dal tastierista Mark Harris e caratterizzata da un sensazionale contributo alla chitarra di Tony Soranno; e soprattutto "Fiume Sand Creek", sicuramente il pezzo più noto dell'album e uno dei più notevoli della carriera di De André. Proseguendo il tema della sconfitta storica dei nativi americani iniziata in "Coda di Lupo", sublimata in sconfitta universale dei popoli oppressi, "Fiume Sand Creek" corre lungo una brillante figura di basso di Michelatti e lungo le illuminanti percussioni di Maurizio Preti, descrivendo l'insensata strage del fiume Sand Creek del 29 novembre 1864 attraverso gli occhi poetici e vivi di un bambino.

Un buon disco che comprende alcuni classici assoluti della produzione di De André, il disco dell'Indiano chiude la collaborazione con Bubola e dimostra, con i suoi momenti meno a fuoco, che la riflessione di De André sull'aspetto concettuale del disco è stata forse preponderante rispetto alla sua esecuzione. Ma se avete amato Faber più per le sue liriche che per la sperimentazione musicale, questa modesta obiezione non vi impedirà di godere appieno di un ennesimo lavoro riuscito.

- Prog Fox

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