venerdì 18 giugno 2021

Muse: "Origin of Symmetry" (2001)

Usciva il 18 giugno di venti anni fa "Origin of Symmetry", secondo album e capolavoro del rock futuristico degli inglesi Muse. Si tratta forse di uno degli ultimi grandi dischi di rock classico in assoluto?



(disco completo qui: )

Non sarebbe bello, se le dimensioni parallele esistessero e potessero essere visitate? Poter accedere a realtà dove, chessò, il “Dune” di Jodorowsky è realmente avvenuto ed ha davvero cambiato la storia del Cinema; o in cui a David Lynch non venne il mal di testa, mentre parlava con George Lucas di dirigere “Il Ritorno dello Jedi”. Potremmo persino sognare di accedere ad una dimensione in cui l’etichetta americana dei Muse non rifiuta di pubblicare il secondogenito di Bellamy, Wolstenholme e Howard per “eccesso di falsetto”, cambiando forse la storia del rock come la conosciamo.

“Origin of Simmetry” prende il suo titolo da una teoria della fisica delle particelle che, per farla breve, considera plausibile l’esistenza di dimensioni parallele. Un Matthew Bellamy poco più che ventenne ne venne a conoscenza grazie a “Iperspazio”, libro divulgativo di Mikio Kaku, in una fase della sua vita in cui aveva scoperto la psilocibina (Bellamy dico, non Michio Kaku). Reduci dal successo dell’esordio “Showbiz”, che li aveva trasformati in un piccolo culto rockettaro di inizio millennio, grazie soprattutto alle loro incendiarie performance dal vivo, il trio era atteso alla conferma da un hype piuttosto alto, tra paragoni coi Radiohead accesi da Yorke stesso (e che verrano riproposti molto, molto più a lungo di quanto sarebbe stato ragionevole) e la fama di “next big thing” del rock d’Albione. Il disco venne registrato in due diverse sessioni, con diversi produttori artistici: David Bottrill (già collaboratore dei Tool) sarà in cabina di regia per “Newborn”, “Bliss”, “Plug in Baby” e “Darkshines”, mentre è John Leckie a supervisionare le restanti tracce, dopo aver curato l’interezza di “Showbiz”. Il risultato è, secondo il parere di chi scrive, uno degli ultimi dischi di rock propriamente detto che non trasformi la nostalgia per epoche passate in poetica.

L’influenza più evidente è quella prog: il riff di chitarra di “Newborn” suona come la versione anfetaminica di “Red” dei King Crimson; “Citizen Erased”, a sua volta, è “One More Red Nightmare” in versione abrasiva, ma finisce per sciogliersi in una struggente piano ballad conclusa da un bizzarro suono sintetico preso di peso dalla “The Great Pretender” di Brian Eno; “Space Dementia” è uno space rock dalla psichedelia nerissima e dalle partiture di piano frenetiche, che suona come se Emerson, Lake e Palmer stessero facendo una cover degli Hawkwind; la conclusiva “Megalomania” è una ballata per organo a canne e violoncello, con inserti di mellotron che suonano un po’ come i Genesis di “Watcher of the Skies”. Ma non è tutto prog quello che contiene tastiere: “Plug in Baby” e “Micro Cuts” sono dei proiettili hard’n’heavy che Bellamy spara per mettere in mostra, allo stesso momento, le sue capacità chitarristiche (con scale, arpeggi e riffoni degni degli eroi dello strumento) e la sua vocalità, con il suo falsetto lancinante, altissimo e potentissimo, non tanto angst Yorke-iana quanto grido furibondo di una mente al limite della sanità mentale. Se “Hyper Music” è la più Morelliana del lotto, con i suoi ritmi da headbanging, “Bliss” è certamente un altro animale strano: la vertigine della “beatitudine” descritta da Bellamy è introdotta da un ampissimo arpeggio di piano, e poi epitomizzata dallo stesso arpeggio eseguito però da sintetizzatori ultramoderni, in uno strano connubio di classica, hard rock e pop anni ’80; “Darkshines” prende una canzone di pop psichedelico anni ’60 e la immerge in atmosfere plumbee, mentre la cover di “Feeling Good” è una versione per pianoforte elettrico e basso distorti il cui stile non può essere descritto in altro modo: punk, iconoclasta, incazzatissimo come il resto dell’album, inclusa la ballad “Screenager”. Nota a parte merita “Futurism”, traccia bonus inclusa solo nella release giapponese dell’album, un hard rock che ha il basso come protagonista, e che segna la via per diverse canzoni più note (“Hysteria”, per dirne una), ma che è anche, obliquamente e sorprendentemente, profetica dell’elettronica di gente come Skrillex: ascoltare per credere, concentrandosi sulla chitarra nervosissima e sincopata.

Come detto tre paragrafi sopra, attingere a piene mani dal passato più glorioso del rock non equivale, qui, a un moto di nostalgia: i Muse, e i loro produttori, fanno di tutto per dare al disco un sound che *non* abbia parvenze vintage, ma che anzi conservi l’impatto high fidelity di prog-rocker moderni come i Tool, o di paladini del suono in alta definizione in voga negli anni ’90, come gli Suede di “Dog Man Star”, gli Smashing Pumpkins di “Siamese Dream”, o i Rage Against the Machine di “the Battle of Los Angeles”. Per tutte le sue influenze “classiche” (sia in senso lato, con il rock dei decenni d’oro, ma anche in senso letterale, con le influenze classiche nelle linee melodiche, non ultimo il riff Bach-iano di “Plug in Baby”), “Origin of Simmetry” è un album che cerca la sua strada verso il futuro del genere. I testi stessi parlano della strana sensazione di trovarsi in un momento storico senza precedenti: l’ascesa della Rete, con la sua capacità di indurre all’alienazione, come cantato in “Citizen Erased” e “Screenager”; la relazione con la religione e la divinità, in un tempo in cui l’umanità sembrava essere, allo stesso tempo, padrona del proprio destino e pronta ad estinguersi per la propria hubrys, mentre le nuove generazioni si trovano testimoni di un mondo che capiscono appena meglio dei loro padri, ma che si muove a velocità sempre più parossistica. Certo, i testi parlano di questo quando parlano effettivamente di qualcosa, e non delle allucinazioni psichedeliche di Matt nostro, come le saghe spaziali di “Hyper Space” e “Space Dementia”, o il momento di puro, assoluto nonsense Verdeniano di “Plug in Baby”.

Purtroppo non sapremo mai se, e quanto, la storia del rock sarebbe cambiata se “OoS” fosse uscito a suo tempo negli USA. Di certo è un disco difficilissimo da imitare, e infatti i Muse stessi partiranno da qui verso lidi via via più mainstream nel decennio ’00, per poi dichiarare un “ritorno alle origini” (scusate il gioco di parole) letteralmente per ogni album che verrà dopo “The Resistance”, con risultati che definiremo eufemisticamente spesso deprimenti, oltreché irritanti. “Origin of Simmetry” è un disco unico, figlio di un’epoca irripetibile, di un songwriter geniale agli sgoccioli dell’adolescenza (e che probabilmente si sta ancora maledicendo per non aver tenuto da parte un po’ delle b-sides pubblicate con i primi due dischi, che avrebbero potuto perlomeno dare un po’ di sostanza agli atroci album pubblicati nel decennio da poco conclusosi) e di una band vogliosa di sudare suonando un rock durissimo, pesante, e piuttosto tecnico. Non viviamo nella dimensione giusta per sapere cosa sarebbe stato di “Origin of Simmetry” se qualche dirigente americano non avesse pensato che il falsetto di “Plug in Baby” suona male; possiamo però godercelo, questo disco, farci scuotere dalla sua violenza, e goderci uno degli ultimi capolavori del rock.

- Spartaco Ughi

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