È uscito la scorsa settimana "Daddy's Home", sesto album della cantautrice St. Vincent. La cantante e chitarrista americana ribalta il proprio sound passando a un vintage anni settanta nel quale si dimostra ancora una volta eccellente musicista e compositrice. Ma salire sul carro del retro è vera gloria? All'ascoltatore l'ardua sentenza.
(il disco completo qui: https://tinyurl.com/pk4e74mx)
“Quindi chi sto cercando di essere? Una regina di bellezza alla benzodiazepina?” si domanda Annie Clark nel secondo singolo estratto da questo “Daddy’s Home”, “The Melting of the Sun”, nel quale enumera diverse figure femminili di spicco nel suo pantheon, da Nina Simone a Joni Mitchell fino a Marylin. La carriera solista sotto il moniker St Vincent, ormai al termine del suo terzo lustro, è stata fin qui un crescendo di successo: dagli esordi alt-rock a fine anni ’00 al primo capolavoro “Strange Mercy” nel 2011 (già portatore sano di alcuni dei germi retrò che troviamo nell’album di cui parliamo oggi), alla definitiva consacrazione dell’algido self-titled, al glamour elettronico dell’ultimo "Masseduction" del 2017, Clark non sembra aver sbagliato un colpo. Il gusto trasformista di Bowie e la tendenza one-woman-band di Prince, il femminismo e l’identità queer, la nomea di atteggiamenti bitchy durante le interviste, tutto di lei congiura a renderla un esemplare di una specie, quella dell’artista rock, ormai in via di estinzione.
Dubitiamo che siano pensieri di questo tipo, l’identificazione con i grandi eroi (ed eroine) dell’epoca d’oro del rock, a portarla a pubblicare un disco dai suoni così apertamente, smaccatamente anni settanta. La motivazione, secondo lei, è la similitudine tra quei tempi instabili, “post hippie ma pre-disco”, con i nostri, diversi ma altrettanto incerti e spaventosi. In più, il tema del ritorno a casa di papà è autobiografico: il signor Clark è uscito dal gabbio dopo 10 anni di reclusione per manipolazioni finanziarie, e non è difficile immaginare che sia proprio lui ad aver introdotto certi ascolti alla giovane Annie. Bisogna penetrare strati su strati di significati diversi e ragioni disparate, per dare un giudizio equo sui temi trattati: le daddy issues di una ragazza che non ha alcun problema a passare per “cattiva”, almeno come personaggio pubblico; i rapporti tra i sessi, la dipendenza, la fondazione di una famiglia nei tempi moderni, quelli della “seconda liberazione sessuale” di persone non conformi di vario tipo, come l’autrice sembra essere. I temi classici di St Vincent sono tutti lì, sempre e comunque.
Gordianamente risolto il nodo tematico, possiamo passare all’aspetto meramente musicale di questo “Daddy’s Home”, che come detto abbandona i suoni ultramoderni cui St Vincent ci ha abituato: fuori più distorsori col turbo e drum machine minimaliste, dentro sintetizzatori rigorosamente vintage, profluvi di sitar e di pianoforti elettrici, chitarre acustiche e cori gospel/soul. E psichedelia, tantissima psichedelia, sparsa come glitter su tutte le canzoni. E anche citazioni, citazioni, citazioni a catinelle. L’opening “Pay your Way in Pain” fa il verso al Bowie di “Fame”, e nel video la nostra sembra impersonare Raffaella Carrà negli anni d’oro (chi scrive ammette che questo potrebbe non essere voluto). “Down and Out Downtown” è un notevole funk/soul ricco di cori, con pieni di mellotron e sitar e vuoti di basso funk e cori femminili, notturno e poco appariscente ma molto piacevole. “Daddy’s Home” è una filastrocca r’n’b volutamente sgraziata, in cui la cantante fa i conti con i propri sensi di colpa e con quelli della sua famiglia, chiedendosi “come puoi scappare se il fuorilegge è dentro te?”. “The Melting of the Sun” ha l’ardire di inserire la locuzione “Dark Side of the Moon” nel verso d’apertura di un singolo, ma il gioco appare chiaro solo quando si ascolta l’album: la precedente “Live in the Dream” è infatti una variazione sul tema della Floydiana “Us and Them”, con un testo più virato verso lidi “Comfortably Numb”e un assolo minimalista che, con un semplice finale dissonante, è riconoscibilmente St Vincent; omaggio o furto, comunque uno degli highlight del disco. La nerissima ballata “The Laughing Man” introduce il singolo più tirato del lotto: “Down” crea un tappeto di piano elettrico (probabilmente sintetico e programmato, sospetta chi scrive, ma l’effetto è sospeso tra passato e futuro e potrà non piacere, ma ha il suo perché) su cui St Vincent può liberare tutta la sua potenza di fuoco, sia chitarristica che vocale.
I pezzi forti a questo punto sono tutti partiti, ma a concludere la tracklist rimangono comunque brani solidi: ci sono l’acustica “Somebody Like Me”, delicato mid tempo che sembra alludere ad una relazione finita; il pop-blues corale di “My Baby Wants a Baby” e un power-pop acustico come “…At the Holiday Party”, per giungere alla conclusiva, languidissima ballad “Candy Darling”.
La conclusione di questa recensione lascia chi scrive un po’ indeciso sul giudizio complessivo: questa svolta “vintage” sembra intrapresa anche per sviare l’attenzione da un leggero calo di ispirazione rispetto al festival di melodie orecchiabili di “Masseduction” e alla tensione elettrica di “St Vincent”, ed è oltretutto fonte di irritazione personale del recensore, perché St Vincent era una delle ultime artiste di primo piano a non andare a rivangare tendenze passate del rock ed ora invece no. D’altronde, d’altro canto, le canzoni “che spaccano” sono tutt’altro che assenti, la chitarra ha recuperato il centro della scena che aveva perso nel disco precedente, e gli arrangiamenti sono così attenti e precisi, così genuinamente 70’s, da rendere difficile credere si tratti solo di uno specchietto per le allodole. “Daddy’s Home” è il disco che non ci saremmo aspettati a questo punto della carriera di Clark, ma aggiunge un altro tassello alla storia di un’artista che, piaccia o no, è oggi uno dei volti del rock americano. Aspettando che St Vincent decida cosa vuole essere davvero.
- Spartaco Ughi
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