Usciva cinquant'anni fa oggi uno dei capolavori dei Rolling Stones, ovvero l'album "Sticky Fingers". Tutto in esso è leggendario, dalla prima apparizione del logo con le labbra 'di Mick Jagger' (in realtà no), dalla copertina di Andy Warhol con i jeans attilati che evidenziano il membro 'di Mick Jagger' (ancora una volta: no), alla musica stessa, che è poi quello che conta: "Wild Horses", "Brown Suger", "Moonlight Mile" sono alcuni dei pezzi più famosi degli Stones, nel tentativo di sopravvivere all'eroina, ad Altamont, alla morte di Brian Jones, anche grazie alla chitarra di Mick Taylor e ai numerosi amici e colleghi che offrono il loro generoso contributo.
(il disco completo qui: https://tinyurl.com/u7n4tn95)
Parlando di Rolling Stones è difficile trovare il disco che sia la consacrazione della loro carriera. "Aftermath" (1966) è il primo album completamente a firma Jagger/Richards ed è il disco di "Paint it Black", "Their Satanic Majesty Request" (1967) era il delirio psichedelico, "Beggars Banquet" (1968) il disco di "Sympathy for the Devil" e dell'edonismo satanico, "Let it bleed" (1969) è l'abisso più profondo di "Gimme Shelter", la sfida alla società, l'abbandonarsi alla violenza.
Ma i Rolling Stones erano sempre stati dei ragazzi borghesi che volevano drogarsi, scopare e suonare seguendo il mito dei maledetti del blues, non cambiare il mondo con l'amore o la rivoluzione, né autodistruggersi veramente. La morte del loro ex-chitarrista Brian Jones, avvenuta il 3 luglio del 1969 a soli 27 anni, fu il primo bagno di realtà, il secondo fu il disastro del festival di Altamont il 6 dicembre successivo, quando gli Hell's Angels assunti dagli Stones come security uccisero uno spettatore esagitato, il povero Meredith Hunter.
Il duplice shock fu seguito dalle morti di Jimi Hendrix e Janis Joplin, e la sensazione che gli anni Sessanta fossero giunti alla fine chiudendo per sempre le speranze dei giovani generò in tutti, Stones compresi, meditazioni di varia natura tradottesi poi in quello che sarebbe diventato il ben noto sound del rock classico (frutto di ciò furono album come "Led Zeppelin IV", "Machine Head", "Who's Next", e così via).
Gli Stones tirarono fuori così un disco che avrebbe marchiato a fuoco il decennio, e sugellato per sempre la leggenda del gruppo: "Sticky Fingers". Allo stesso tempo stolido e visionario, sporco e sognante, blues e folk, country e rock, il disco riassume in una quarantina di minuti appena la carriera passata e quella futura del gruppo, rappresentandone forse il picco, almeno secondo il parere del noto critico Lester Bangs (se la gioca probabilmente con il successivo doppio "Exile on Main Street" - dipende se i vostri Stones preferite berli belli forti e concentrati o sorseggiarli diluiti sulla distanza delle due facciate).
Imbarcato Mick Taylor a tempo pieno come chitarrista al fianco di Keith Richards, il virtuoso bluesman duetta con lo sporco rocker complementandone il suono in maniera perfetta. Il quintetto base, completato dalla sezione ritmica Bill Wyman (basso)-Charlie Watts (batteria) lavora egregiamente; Mick Jagger interpreta le diverse anime del gruppo, tanto camaleontico nello spirito quanto riconoscibile nella sua vocalità unica.
I capolavori si susseguono uno dopo l'altro: "Brown Sugar" (con 'il sesto Stones', Ian Stewart, al piano), "Sway", "Wild Horses" sono un trittico di apertura da paura, che mostra una band dilaniata tra aspirazioni e ispirazioni differenti: la sfrontata dichiarazione d'amore per la droga nel primo pezzo, sessualizzato, razzializzato in modo oggi intollerabile per l'ascoltatore moderno; la graffiante power ballad del secondo pezzo vede Jagger spostarsi verso un umore più riflessivo ('Ain't flinging tears out on the dusty ground for my friends out on the burial ground.
Can't stand the feeling getting so brought down. It's just that demon life has got me in its sway'); e infine il dolore che vive sotto la superficie grezza degli Stones viene alla luce, esorcizzato dalla catarsi del terzo brano.
Altro pezzo strepitoso è "Can't you hear me knocking", che vede Richards e Taylor duettare al meglio alle chitarre, prima dell'assolo finale in una lunga coda ispirata inconsciamente allo stile di Santana e della sua band, non a caso sul brano compare una formazione allargata con Rocky Dijon e il produttore Jimmy Miller alle percussioni, Billy Preston all'organo, Nicky Hopkins al piano e Bobby Keys al sax. Conclude il lato A la cover di un classico blues, "You gotta move", a firma di due giganti come Mississippi Fred McDowell e il Reverendo Gary Davis, resa gustosissima dalla combinazione della steel guitar di Richards con la slide di Taylor.
Sul lato B, dopo "Bitch", un hard rock accompagnato dal sax di Keys, che ripercorre strade già esplorate meglio dal gruppo in altre occasioni, arrivano altri capolavori: "I got the blues", una dolcissima ballata soul rock con i fiati di Keys & Jim Price (tromba) che ancora una volta rievoca l'altra faccia del rock'n'roll, la natura esistenzialista e profonda di quella musica; il dramma semiacustico "Sister Morphine", scritta due anni prima con Marianne Faithfull, che vede gli amici Jack Nitzsche al piano e Ry Cooder alla slide e ancora una volta mette la droga al centro della narrazione; il country rock di "Dead Flowers" (ennesima, arrogante, inveterata dedica all'eroina: 'I'll be in my basement room, with a needle and a spoon'); e la ballata conclusiva "Moonlight Mile", arrangiata da Paul Buckmaster, in cui Jagger abbandona ancora una volta la maschera della rock star per mostrare la stanchezza e le preoccupazioni di quello che, dopotutto, era un ragazzo di 27 anni che si sentiva in un gioco più grande di lui (ma sempre sufficientemente stronzo da rubare la paternità della composizione al ventiduenne Mick Taylor per regalarla a Keith Richards, come un professore universitario qualunque con il proprio studente di tesi).
"Sticky Fingers" è un disco splendido, simbolo e frutto di un periodo di enorme confusione fra i giovani del tempo, di cui i Rolling Stones per l'ennesima volta si fanno portavoce. Non sono polticizzati come i Jefferson Airplane o Crosby, Stills, Nash & Young, e questo li salva dal tracollo anche morale dei loro colleghi a seguito della dissoluzione della nazione hippy (e che morale avevano mai avuto, poi, gli Stones?). Non sono idealisti come i Beatles, che davanti alle contraddizioni proprie e della società si disgregano, separati per sempre dal destino nonostante i tanti tentativi di riavvicinarsi. I Rolling Stones sono ragazzi che volevano solo scopare, drogarsi e suonare, e scoprono che tutto questo, che ieri era il nucleo centrale del sogno di un futuro migliore per tutti i giovani dell'Occidente, interpretato da Jagger & soci con sfrontatezza ma anche inconsapevolezza e ingenuità, è diventato un incubo fatto di dipendenza dall'eroina e morte, e il non avere fermato la guerra in Vietnam rappresenta l'ineluttabile fine degli ideali.
Parafrasando Hunter Thompson in "Paura e disgusto a Las Vegas", gli Stones sono 'troppo strani per vivere, troppo rari per morire'. Ma sono anche l'incarnazione più pura dello spirito della loro generazione confusa sulla soglia dei Settanta, dopo avere lasciato dietro di sé le macerie del sogni dei Sessanta.
- Prog Fox
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