Vent'anni fa oggi usciva l'album eponimo dei Gorillaz di Damon Albarn e Jamie Hewlett. Enorme risultato commerciale in tutto il mondo, anche grazie ai cartoon di Hewlett che li rendevano la prima band virtuale di successo nell'era delle nuove tecnologie, e a una musica calda e avvolgente, che mescolava strumentazione vera, effetti elettronici, rock, pop e hip hop.
(qui il disco completo --> https://tinyurl.com/c9s3wtdz)
Vi è mai capitato di avere idee geniali seduti sul divano col vostro coinquilino, immersi nel tedio esistenziale, mentre guardate programmi di merda in TV? Sì?! Lo supponevo, sapete? L’immaginazione viaggia veloce, le idee non costano niente, e non si offendono quando vengono abbandonate. Perché, nel 99% dei casi, i progetti rivoluzionari pigramente concepiti in questa guisa nemmeno riescono a raggiungere lo stadio di “rimasti sulla carta”. Cosa succede, però, quando i due debosciati in salotto si mettono invero all’opera, per portare al mondo il progetto multimediale più assurdo, iconico e di successo degli anni ’00? Succedono i Gorillaz, ecco cosa.
Damon Albarn, leader dei Blur, e Jamie Hewlett, fumettista noto soprattutto per essere l’autore di “Tank Girl”, concepirono l’idea di una band a cartoni animati nel ’98, guardando fisso nel vuoto pneumatico generato da MTV (e se MTV sembrava vacua negli anni ’90, Dio solo sa cosa li porterebbe a creare oggi). Se l’idea di un gruppo “senza volto” non era nuova (i Residents esistono dagli anni ’70, dopotutto), il concetto di cartoon band certamente lo era: “diamo qualcosa di cui parlare alla generazione MTV”, sembra essere l’attitudine che ha portato alla genesi di 2D, Noodle, Murdoc e Russell, la lineup dei Gorillaz. Il primo album, quello di cui parliamo oggi, uscì il 26 marzo del 2001, anticipato di pochi mesi dall’EP “Tomorrow Comes Today”.
Lungi dall’essere una reiterazione dei suoni dei Blur, “Gorillaz” è un calderone nel quale lo stregone Albarn mette a bollire influenze disparate: l’ingrediente più importante è probabilmente l’hip hop, i cui beat la fanno da padrone non solo nel singolo “Rock the House”, ma anche nelle (estremamente albarniane) ballad “Tomorrow Comes Today” e “Slow Country”, e nella psichedelia dub di “Sound Check” e “Dracula”. C’è spazio per 97 secondi di “Punk”, per l’electro-discopop di “19-2000”, ma soprattutto c’è spazio per delle autentiche pepite di weird come le acidissime “Man Research”, “Starshine” e “Double Bass”. Le sortite rock come “M1 A1” e “5/4”, per quanto oblique, ci sono pure loro, assieme al bizzarro esperimento valzer/flamenco in spagnolo “Latin Simone”.
Questo succede, quando l’idea di un pomeriggio ozioso finisce nella testa del talento più creativo d’Inghilterra (almeno per quanto riguarda la sua generazione). Trainato da un instant-classic come “Clint Eastwood”, il disco arrivò a vendere svariati milioni di copie nel mondo, portando nelle orecchie di un pubblico ignaro una delle opere pop più sperimentali che mai abbiano toccato le classifiche di vendita discografica, nonché il capostipite di una serie di (finora) sette album spesso arricchiti da ospiti di rilievo (qui, tra gli altri, ci sono Tina Weymouth e Chris Frantz dei Talking Heads e Tom Tom Club, Dan the Automator come produttore, e una batteria di vocalist e rapper di tutto rispetto; in futuro ci saranno orchestre sinfoniche e Lou-motherfucking-Reed). La formula “singoli catchy/album sperimentale” permetterà ad Albarn&Co di produrre, e vendere, qualsiasi stranezza gli passi per la testa. Se il mercato discografico non è sempre giusto nei suoi verdetti di successo o fallimento, è bello sapere che un progetto così peculiare sia arrivato ad essere una delle realtà più rappresentative del millennio. Chapeau.
- Spartaco Ughi
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