venerdì 26 febbraio 2021

Daft Punk: "Discovery" (2001)

Solo tre giorni fa, i Daft Punk hanno annunciato il loro scioglimento dopo 28 anni di attività. Oggi è il momento di ricordare il loro secondo album e forse massimo capolavoro, uscito esattamente vent'anni fa. Stiamo parlando di "Discovery", classico senza tempo realizzato da Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter.



(il disco completo qui: https://tinyurl.com/h765cwn7)

Ci sono molti modi diversi di iniettare linfa vitale e calore dentro all’ampio e variegato genere della “musica elettronica”, per natura algida e distante. Si possono caricare i testi di poesia, abbracciare lo space rock per mezzo di una chitarra blues e BAM, “The Dark Side of the Moon”, uno dei dischi più avvolgenti ed avvincenti della storia; oppure si può girare al massimo la manopolina della freddezza sintetica, per poi far danzare una voce, calda e profondamente dolente, su traiettorie melodiche disarmanti, et voilà “Violator”, l’apice sublime del synthpop; si può imboccare l’autostrada della psichedelia e uscire al casello techno-blues dei Primal Scream, o a quello hip-hop dei Massive Attack.

Nel gennaio 2001, reduci dal successo internazionale dell’esordio “Homework” e della mega-hit di traino (appropriatamente intitolata) “Around the World”, i Daft Punk inaugurano una rotta probabilmente nuova, incredibilmente presciente nel suo guardare al passato con nostalgia, portando alla ribalta un modo ancora nuovo di dare un volto umano all’elettronica. “Discovery” deve il suo titolo a quella che gli autori definiscono “l’età della scoperta”, l’infanzia e l’adolescenza, anni formativi durante i quali l’arte (in questo caso la musica, ma anche i cartoni animati) vengono assimilati in maniera acritica, emotiva invece che intellettuale, generando un attaccamento emotivo che resta, indelebile, nell’età adulta.

Gli innumerevoli campionamenti di canzoni funk e disco che, letteralmente, compongono lo scheletro di “Discovery”, provengono da tracce verso cui Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter provano nostalgia in prima persona, canzoni che sono diventate parte del loro sottobosco emotivo e, probabilmente, ragione stessa per diventare musicisti, ancor più che ispirazione.

Speculazioni di chi scrive, certo (per quanto supportate dalle dichiarazioni sparse rese dal duo parigino), che però servono a spiegare la vitalità, l’energia, la joie de vivre che quest’album letteralmente trasuda. Da George Duke a Barry Manilow, dagli Imperials a Edwin Birdsong, una lista completa degli artisti campionati non esiste e il duo ha a più riprese smentito liste enormemente lunghe ed oscure, ci vorrebbe un uomo molto migliore di quello che sta scrivendo per andare a verificarle tutte, ma comunque non è questo il punto.

Esaurite le premesse e i corposi panegirici, resterebbero da discutere le canzoni… ma se non avete passato gli ultimi vent’anni in una segretissima missione su Marte, c’è da essere sicuri che buona parte di esse le conosciate già: le quattro che aprono “Discovery”, ovvero “One More Time”, “Aerodynamic”, “Digital Love” e “Harder, Better, Faster, Stronger”, sono la più fulminante apertura di un album pop, forse, dai tempi dei Beatles; da qui il disco prende il la per regalarci oltre trentacinque minuti di synth-techno-pop chirurgico, prodotti in maniera voluttuosa eppure privi di momenti irrilevanti, fino all’apoteosi dello struggente elettrofunk malinconico di “Something About Us”.

Dopo, il disco cala leggermente, pur regalandosi una sorta di strumentale synthwave ante-litteram (“Veridis Quo”) e l’ottimo pop di “Face to Face”. La chiusa è affidata alla (forse troppo) lunga “Too Long” (sì anche io la vedo, l’ironia, grazie). I testi minimalisti (quando non direttamente campionati) sono poco importanti (ad eccezione di “Something About Us”), a contare sono le straordinarie linee melodiche e le atmosfere, gioiose o minacciose, leggere o plumbee, i ritmi ballabili ma mai invadenti.

“Discovery” è un disco da ascoltare in cameretta o da ballare in discoteca, può accompagnare un lungo viaggio on the road o fare da colonna sonora ad un film di animazione. Sì, non possiamo non menzionare “Interstella 5555”, lungometraggio d’animazione realizzato sotto la supervisione di Leiji Matsumoto, autore di classici del fumetto giapponese come “Capitan Harlock” e “La Corazzata Yamato”. Il film, privo di dialoghi e molto parco in effetti sonori diversi dalla musica dei DP, segue le peripezie di un gruppo di musicisti alieni, rapiti e sottoposti a lavaggio del cervello da un malvagio capitano d’industria terrestre, allo scopo di trarne profitto. So cosa state perdire: Spartaco, ma questa metafora non racchiuderà forse una critica, peraltro trasparente e tempestiva per l’epoca, delle politiche neo-conservatrici dell’America di G. W. Bush? La risposta è no, rispondo io: gli alieni rapiti sono più appropriatamente riconducibili all’idea, discussa appena TRE PARAGRAFI FA (eravate distratti, eh?), dell’innocenza del bambino (e dell’artista), trasformata in merce da un mercato discografico poco avvezzo ai sentimentalismi.
Duh.

Infinitamente riascoltabile, monolitico e sfaccettato, “Discovery” è uno dei capolavori della musica elettronica “di massa” ed uno dei suoi successi più durevoli. Se non siete del tutto allergici alla musica da dancefloor, questa è roba che fa per voi.

- Spartaco Ughi

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