Usciva trent'anni fa oggi "The Soul Cages", album solista di Sting, ex-cantante e bassista dei Police e protagonista di una fertile e notevole carriera solista. L'album era dedicato al padre morto pochi anni prima.
(il disco completo qui --> https://tinyurl.com/y4v2gr3h)
I territori in cui naviga lo Sting dell’ultima decade sono racchiusi in una zona che, senza venire meno alla venerazione che Mr Sumner merita, si può definire di assoluta sicurezza e conforto.
Nulla da eccepire sulla classe e il mestiere che l’ex-Police inietta in ogni singola nota che canta e suona; e nulla di particolarmente scandaloso visto il percorso complessivo e vista l’anagrafe (affrontata, va detto, con invidiabile e quasi mefistofelica gloria e salubrità).
Ma tornando a “The Soul Cages”, suo terzo album solista, non si può non cogliere un quid completamente diverso da quello che poi ne seguirà. Una messa a fuoco complessiva più centrata e meno auto indulgente, una qualità e una cifra stilistica che pensa meno all’estetica radiofonica dei brani e più alla loro ragion d’essere, alla loro necessità artistica.
Lo Sting del 1991, lo raccontano le cronache, è un uomo maturo: reduce da dischi importanti e da importanti vicende personali. Ha perso il padre e pensa, tra le altre cose, di rendergli un omaggio dolce e nostalgico; senza indulgenza al lutto ma con la consapevolezza della distanza tra un prima ed un dopo, con la consapevolezza che qualcosa si è perso ed è passato per sempre.
Il disco nasce, fin dalla copertina, come una sorta di concept. I temi si percepiscono: nebbia, mare, città che appaiono nelle campagne inglesi, dimenticate da Dio e dagli uomini ma ricche di vita e di storie.
Riecheggia il Nord, la foschia degli scogli lontani di isole che emergono da mari freddi.
Il racconto – l’opera vuole essere una sorta di libro di storie, con alcuni temi che si rincorrono nelle diverse tracce - si apre con il primo brano, “Island Of Souls”, che è subito il picco emotivo del disco e canzone di rara sincerità e trasporto.
Ovviamente padre e figlio sono i personaggi di questa storia: una storia che parla di un presente grigio e mesto, illuminato solo dalla speranza di un futuro diverso, da vivere in un altro luogo, in un altro tempo.
La tetra Newcastle del presente contrapposta alla nowhere land dell’anima: l’isola da raggiungere in cui padre e figlio possano ritrovarsi, senza il peso e l’oppressione della povertà e del presente.
Il brano è molto riuscito, riesce a toccare davvero le corde della commozione senza diventare patetico o di maniera e apre in modo perfetto l’album.
All’incipit, pensieroso e intimo, seguono in apparente contraddizione i due pezzi più facilmente approcciabili e di impatto commerciale: “All this time” e “Mad about you”. Brani che godranno di notevole successo (taciamo sulle versioni in lingua nostrana del secondo brano, per carità), ma che non sono dei semplici “pezzi facili”. In primo luogo per la comunque notevole produzione e per il talento melodico messo in mostra; in secondo luogo perché rientrano anche loro nell’estetica emotiva del racconto.
“All this time” è una coinvolgente canzone solare, con un testo fatto da immagini in cui appaiono luoghi e personaggi ricorrenti: villaggi nella campagna sperduta, preti, contadini, poveri e ricchi che dialogano con Dio in cerca di una qualche risposta. “Mad About You” è, al contrario , più sensuale e scura; parla di peccati, regni persi e – in sintesi – di vita e amori dannati.
Chiusa la prima parte del disco si passa ad un prezioso brano di collegamento: Sting è un musicista dalle solide basi e qualche puntata nel campo nell’easy listening derivato da influenze blues e jazz non la disdegna di certo; ne dà un saggio riuscito in “Jeremiah Blues”, che prelude al secondo vertice emotivo del disco.
“Why Should I Cry For You?” ritorna ancora tra le nebbie marine intraviste nella traccia di apertura. Sembra davvero di sentire, nella foschia, le onde marine e di vedere le luci delle navi in lontananza.
Canzone d’amore, sì, ma soprattuto universale abbraccio e omaggio agli affetti presenti e agli affetti persi.
I brani successivi sono lo strumentale, ed inatteso, “Saint Agnes And The Burning Train “ e “The Wild Wild Sea”, ancora un soffuso rincorrersi di distanze e perdite, in cui ritorna per un attimo fugace il tema di apertura.
La title track è il brano più energico del lotto, sembrerebbe quello più ordinario, ma stupisce nel finale.
Sting è al meglio delle sue capacità espressive e vocali e ci regala uno dei bridge più emozionanti riprendendo nell’ultima strofa il sogno di fuga di Billy (“and he dreamed of a ship in the sea / he would carry his father and he”) narrato nel primo brano del disco.
Così come è toccante la chiusura di “When The Angels Fall”, con l’improvviso esplodere – nel mezzo di un brano fino ad allora appena sussurrato- di una melodia di gioia e consapevolezza (“These are my feet/ these are my hands/ these are my children/ this is my demand”) che in qualche modo chiude il cerchio di questo bel racconto: di un uomo ancora in ricerca, ma che intravvede una spiaggia a cui approdare.
Che poi sarebbe stato bello anche, in seguito, se si fosse ripreso il mare è altro discorso.
Ma di questo quieto approdo ci compiaciamo e ne ascoltiamo con piacere la storia.
- il Compagno Folagra
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