Disco uscito dieci anni fa oggi è "Mine is Yours", terzo full length dei Cold War Kids, l'album della svolta radiofonica della formazione californiana. Un po' una mezza delusione per chi aveva amato il suono sporco e ubriaco dei primi album.
(disco completo qui: https://tinyurl.com/yxrkhrmj)
I Cold War Kids sono una band californiana formatasi verso la metà degli anni ’00 a Long Beach, in California, un luogo che possiamo certamente considerare ideale per essere una band di blues-rock in qualsiasi epoca.
Gli allora giovanotti capitanati dal vocalist/chitarrista Nathan Willet assursero a piccolo culto dell’indie rock (ve lo ricordate voi, l’indie rock? Che tempi, signora mia) con il loro secondo album “Loyalty to Loyalty” nel 2008, un bizzarro mix di luridi suoni blues-rock e deprimenti storie di alienazione dell’America "profonda”; arrivato a coronamento di un percorso fatto di vari EP e un album d’esordio se possibile più ancorato alle radici tradizionali del rock di quelle parti.
Se, come molti, non conoscete i precedenti e siete arrivati all’ascolto di questo “Mine is Yours” senza sapere chi diavolo fossero i Cold War Kids, tutto il paragrafo precedente vi sembrerà parlare di un’altra band. Blues rock, questi ragazzini che cantano d’amore su melodie ariose e turbo-radiofoniche, con le chitarrine come fosse i Coldplay? Sicuro sicuro?Sicurissimo!
Invero, la svolta pop è già evidente analizzando il contenuto dell’album, le sue melodie leggere e i suoi ritornelli cinematici. Aver scelto come produttore Jacquire King, artefice delle fortune dei Kings of Leon (ve li ricordate, i King of Leons? Io ancora non mi spiego il seguito che hanno avuto durante il loro lustro di gloria, ma non divaghiamo) non fa che mettere un cartello sull’intera operazione, un cartello con sopra scritto “Dateci la gloria e i soldi, vogliamo sfondare, che vi costa su”.
Non che la ricerca del successo sia in sé deplorevole, sia chiaro, soprattutto se poi le tue canzoni funzionano tutte bene, alcune benissimo: l’uno-due iniziale di “Mine is yours” e “Louder than ever” è accattivante nella sua leggerezza pop-rock, gradevole al punto che ci si ritrova a canticchiarle senza troppa vergogna o irritazione. Il problema, almeno per chi scrive, è che da questo notevole punto d’inizio non si sale, né si scende, né ci si scosta: le seguenti 9 tracce dell’album proseguono esattamente sulla stessa traiettoria, con l’aggravante di reminescenze di U2 e REM, ritornelli e strofe quasi intercambiabili tra una canzone e l’altra, e un ritmo che non si schioda mai dal più radiofonico mid-tempo, che va bene l’orecchiabilità ma le uniche (piccole) variazioni sul tema arrivano a metà album, con la marcia di “Out of the Wilderness” e gli esperimenti elettronici di “Sensitive Kid”, poste ai lati del prevedibile singolo “Skip the Charades”.
Non fraintendiamoci: prese singolarmente le canzoni che compongono “Mine is Yours” sono buone, a tratti persino notevoli, ma l’album nella sua interezza è l’equivalente di una dieta esclusivamente basata su biscotti al cioccolato e patatine, e porta a simili scompensi glicemici ed alla stessa voglia di una bella bistecca di hardrock, un po’ di fibra blues, qualsiasi cosa, basta che non sia questo.
Dategli una chance, perché la critica anche all’epoca si divise tra detrattori e estimatori, ed esistono ottime chance che molti di voi vi trovino canzoni di loro gradimento; ma a ‘sto prezzo, per sentire canzoncine di pop-rock americano, io mi ascolto più volentieri i sottovalutatissimi OK GO.
- Spartaco Ughi
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