(disco completo qui: https://tinyurl.com/y27x2e92)
Dopo due doppi album di livello assoluto, i Chicago entrano in studio per realizzare la loro terza opera, ancora una volta nel formato del doppio LP.
Questa volta la decisione e i risultati, per quanto non disprezzabili, non saranno altrettanto riusciti, complici una certa stanchezza e una certa prolissità, come se i sette ragazzi dell'Illinois volessero compensare un evidente esaurimento creativo (quasi nessuno potrebbe mai realizzare sei LP di materiale di livello superlativo nel giro di due anni) continuando a proporre la formula che li ha resi grandi, che si tratti di un talismano oppure il rifiuto di ridursi alla dimensione del long playing singolo.
Su quattro facciate, due sono occupate da una suite che le occupa per intera, ovvero "Travel Suite", composta in gran parte dal pianista-cantante Robert Lamm, sul lato 2, ed "Elegy" del trombonista James Pankow sul lato 4.
"Travel Suite" nei suoi sei movimenti mette in mostra tutte le ispirazioni di Lamm, passando dal country rock ("Flight 602") a Erik Satie ("Free Country", con il flauto di Walt Parazaider in evidenza), dal pop rock romantico di "At the sunrise" alla maestosa cavalcata finale "Happy 'Cause I'm Going Home", in cui (ancora una volta) il flauto di Parazaider ci conduce lungo quello che è forse il miglior momento dell'album.
"Elegy", invece, dura quindici minuti ma avrebbe potuto durarne tranquillamente dieci in meno, tra effetti sonori evitabili e giri melodici non particolarmente memorabili per quanto ben suonati.
Le altre due facciate sono occupate in tutto da sette tracce di lunghezza normale: il chitarrista-cantante Terry Kath firma "I don't want your money" (testo di Lamm) e la simpatica "An hour in the shower", sorta di denuncia della giornata di lavoro tipo di un americano medio. Il bassista-cantante Peter Cetera compone "What else can I say" e l'entusiasmo romantico di "Lowdown" (assieme al batterista Danny Seraphine). Ancora Lamm, l'autore più prolifico del gruppo nei suoi primi anni di attività, scrive "Sing a mean tune kid" (illuminata dalla chitarra elettrica furiosa di Kath), il jazz pop gradevole ma abbastanza convenzionale di "Loneliness is just a word" e una sufficiente "Mother".
Così, se tutti questi brani rendono giustizia alla strepitosa potenza muscolare e strumentale del gruppo, dando ampio spazio alle improvvisazioni e alle evoluzioni dei singoli membri, quella che rimane un po' indietro è la capacità di emozionare: "Chicago III" è un disco troppo freddo, che pur rimanendo saldamente all'interno delle coordinate del rock fiatistico - influenzato dal jazz ma certamente non jazz - condivide con il progressive rock e la jazz fusion il non entusiasmante primato di sembrare troppo pianificato a tavolino nel suo dipanarsi fra strutture complesse - non importa quanto spontanee siano le improvvisazioni.
Chiaramente un disco così ben suonato e così ipertrofico e strabordante non può essere una vera delusione e tantomeno un fallimento: ma rimane certamente collocato al di sotto delle prime due opere del settetto proveniente dall'Illinois. Il futuro, comunque, è alle porte e proporrà nuovi momenti di trionfo: un quadruplo LP dal vivo, il primo LP in studio singolo, e un nuovo doppio poderoso, che esauriranno in gloria la fase migliore di una delle più grandi formazioni di rock fiatistico di tutti i tempi.
- Prog Fox
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