Dieci anni fa usciva "Thank you happy birthday", secondo album degli americani Cage The Elephant - ottimo esempio dell'indie rock più riuscito e sanguigno degli anni zero, ciò nonostante disco in cui si teme che il senso retro domini in modo eccessivo sulla proposta musicale. Ai posteri l'ardua sentenza.
(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/y35bjfb4)
Dicevamo, ve lo ricordate l’indie rock? Quell’ultimo rantolo di agonia del sottogenere più sporco della musica popolare del ventesimo secolo? Un termine ombrello, “indie”, che raccoglieva di fatto tuo ciò che era suonato con una chitarra elettrica e non era radiofonico, metal, o qualche vecchia tendenza degli anni ’70; un grande condominio in cui convivevano il punk con il synth-pop, la psichedelia con il pop, il grunge con il glam: Peter Venkman lo avrebbe usato per spiegare l’Apocalisse biblica, assieme a cani e gatti che vivono insieme.
Nei casi migliori, quello che il crepuscolo “indie” ha prodotto sono canzoni anche ottime, costruite su mischioni più o meno caotici dei colori ormai istituzionalizzati della grande tavolozza del rock. A proposito di best-case-scenario indie rock, eccoci a parlare di questo “Thank you, Happy Birthday”, secondo album degli americani Cage the Elephant, kentuckian di nascita ma londinesi d’adozione.
Se il primo disco (eponimo) della band era un simpatico groviglio di pop-blues piuttosto solare ed orecchiabile, “TY,HB” è pieno di canzoni che sono strani aggeggi artigianali, tutte affilati spigoli punk e acidità lisergiche, ben rappresentate dal conturbante opening “It’s Always Something”.
Non si fa in tempo a definire la direzione, tuttavia, che già ci si trova di fronte la prima eccezione: il singolo “Aberdeen” è infatti più prossimo ai suoni degli Smashing Pumpkins o dei primissimi Radiohead che a qualsiasi punkeria; sono però la sua melodia vocale, con tanto di ritornello caciarone, ed il ritmo meno frenetico che la rendono appetibile ad un pubblico più vasto, pur senza snaturare il feeling che la band cerca di costruire nel bulk dell’album. Lo stesso si può dire degli altri singoli, “Shake me Down” e “Around my Head”, ma anche della melensa (ma melodicamente azzeccata) “Right Before my Eyes”.
La presenza di singoli catchy non impedisce ai nostri di fare satira paracula sul conformismo superficiale degli 'Indy Kidz' che sono poi il target commerciale di questo album, ma, come messo bene in chiaro all’inizio di questo paragrafo, le fondamenta di questo disco sono solidamente rock. “2024” e “Sabertooth Tiger” sono punk quasi vintage, che non stonerebbero in un disco dei Titus Andronicus. “Sell Yourself” è uno stranissimo mostro a due teste, Arctic Monkeys annata 2005 nella strofa/Rage Against the Machine nel ritornello e no, non capisco come possa funzionare, però funziona. “Japanese Buffalo” fa lo stesso scherzetto, mescolando un soft-rock (quasi surf) con un punk tiratissimo. Completano la tracklist il valzerpop di “Rubber Ball” e la ballad “Flow”, che chiude il disco prima di una versione acustica di “Right before my eyes”.
I Cage the Elephant rimarranno sulla cresta dell’onda per tutto il decennio vincendo due Grammy per best rock album. Scriveranno tante belle canzoni, funzionanti e accattivanti, ma a questo si limiterà la loro legacy. Se a voi basta, e volete sentire del rock ben fatto, potete fare molto peggio che ascoltarvi questo disco. Ma, sarà anche la giornata storta, mi viene da dire che il rock è ormai un oggetto da museo, un fossile da cui si può al massimo cercare di ricostruire la forma della creatura vivente che fu. Forse non ci resta che sperare che un genetista con il fiuto per gli affari ci costruisca un parco a tema.
- Spartaco Ughi
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