giovedì 3 dicembre 2020

Seventh Wonder: "The Great Escape" (2010)

Il 3 dicembre 2010 vede la luce "The Great Escape", il quarto lavoro dei progster svedesi Seventh Wonder, che ribadisce il superbo livello raggunto nel precedente "Mercy Falls" due anni prima.


(il disco completo qui: https://tinyurl.com/y3kmblrg)

Dopo due album discreti, il gruppo originario di Stoccolma attirò l’attenzione di critica e pubblico con il terzogenito, il concept "Mercy Falls". A due anni di distanza bissano il successo del precedente masterpiece con "The Great Escape", album che segue esattamente le medesime coordinate stilistiche, proponendo un prog metal moderno fortemente influenzato dall’hard rock e AOR anni ’80, adornato di influenze neoclassiche, heavy e power metal, e melodie tradizionali del folklore scandinavo.

Squadra che vince non si cambia, dicono, resta quindi invariata la formazione (già assodata fin dall’album d’esordio in effetti) composta dal talentuoso Tommy Karevik alla voce, dal formidabile bassista Andreas Blomqvist, dall’ottimo chitarrista Johan Liefvendhal, dal buon mestierante Johnny Sandin alla batteria, e dal discutibile tastierista Andreas Söderin (il recensore non apprezza affatto le modulazioni e il gusto compositivo del suddetto). Dopo aver autoprodotto i primi tre lavori, grazie soprattutto al bassista Blomqvist, i Seventh Wonder si affidano per la prima volta a un producer esterno, Johann Larsson, al quale viene inoltre affibiato il compito di fotografo e concept artist del booklet.

"Alley Cat" si pone come la punta di diamante dell’album, una perfetta rappresentazione di tutte le influenze stilistiche descritte in apertura, imbevuta di tanta sana tamarraggine alla Europe (versione US) e Whitesnake (versione US), un canto dolceamaro che sprizza nostalgia degli anni ’80, scritto d’impeto in seguito alla scomparsa di Michael Jackson, che ha in un certo senso decretato una simbolica “fine di un’epoca”. Il pezzo è introdotto da una lunga (ma non troppo) sezione strumentale di pregevole prog metal shakerato con piroette neoclassiche alla Symphony-X e Jason Becker, che si ripropongono nel break successivo con una serie di eccellenti soli ad opera di Johan Liefvendhal (anche il tastierista Söderin si prende qualche secondo di “gloria”, ma su questo direi di soprassedere), sotto una magistrale sezione ritmica sorretta grazie alla pirotecnica performance di Andreas Blomqvist. Il gruppo mette in mostra anche una notevole capacità di songwriting, abbinando e tessendo riff e linee vocali estremamente affabili e accattivanti impeccabilmente condotte da Tommy Karevik, forse troppo accademico e tecnico ma autore di prestazioni senza la minima sbavatura, e piazzando uno dei refrain più anthemici che si siano sentiti in tempi recenti in ambito prog, con particolare attenzione ai cori in pieno eighties style.



Pure l’opener "Wiseman" si dimostra all’altezza del prestigio conquistato dal gruppo, e fra le composizioni migliori dell’album (e della loro carriera) troviamo anche la superba "King of Whitewater", impreziosita da inserti orchestrali ad opera del violinista finlandese Arto Järvelä (impiegato dal gruppo anche di recente, nel loro comeback album "Tiara"), e la powerballatona "Long Way Home", nella cui parte finale Karevik si diletta con la sorella Jenny (molto brava anche lei, già diventata ospite fissa in ogni album del gruppo) in un duetto molto intenso.

Arriviamo dunque al gran finale, la conclusiva title-track, una sontuosa suite di mezz’ora suddivisa in tredici atti, un concept ispirato al racconto sci-fi “Aniara” dello scrittore svedese Harry Martinson. Più che suite, in realtà, dovremo parlare di collage di tredici pezzi (inclusi gli intermezzi) assemblati assieme, legati solamente dall’aspetto narrativo. Scomponendo i vari passaggi, fra i momenti più riusciti troviamo la prima parte introduttiva, intitolata "…and the Earth Wept", pezzo dal mood malinconico condotto dalla sole voce di Karevik accompagnato dalle note della chitarra acustica, sulla falsariga di "Tears for a Father" del precedente "Mercy Falls".

Assolutamente da segnalare è il sesto atto (che inizia a ridosso del decimo minuto, per intenderci), "A New Balance", pezzo cadenzato in cui viene sfoderato un altro refrain memorabile dal forte gusto ottantiano, capace di fare il paio con "Alley Cat". L’ottavo atto, "The Age of Confusion: Despair" è un breve lentone malinconico dove svettano le convincenti prestazioni individuali di Karevik e di Blomqvist, impegnato in uno dei suoi migliori soli dell’album. Su alti standard viaggia anche l’undicesimo atto, "The Aftermath", dove ricompare Jenny Karevik, il fratello si conferma come ottimo interprete, 'molto teatralmente luciferino' nell’interpretazione finale dell’atto.

Un disco raffinato di gran classe, che non fa rimpiangere il precedente, anche se forse non raggiunge i suoi picchi. Seguiranno soddisfacenti tour mondiali che si protrarranno nei due anni seguenti. Nel 2012, Tommy Karevik verrà chiamato a sostituire Roy Khan nei più blasonati Kamelot, troncando l’attività del gruppo sul più bello e di fatto mettendo in stand-by i Seventh Wonder per gli anni a venire, fino al 2018 con la pubblicazione del nuovo Tiara.

- Supergiovane

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