Esce il 9 dicembre di cinquant'anni fa "Pendulum", sesto album in studio dei grandissimi Creedence Clearwater Revival, uno dei primi e più importanti gruppi dell'era roots rock. Alcune tracce rievocano il precedente "Cosmo's Factory", altre aggiungono toni nuovi, tra l'avanguardia della finale "Rude Awakening #2", il soul-folk corale di "Sailor's Lament", e un maggiore uso dei fiati. Abbastanza per innovare restando nel solco del sound della band (il capolavoro "Have you ever seen the rain?"), nonostante una produzione forse troppo pulita e i primi contrasti interni al gruppo.
(il disco completo: )
Il rock dei Creedence Clearwater Revival è stato una breve, intensissima cavalcata di visionarietà, un continuo susseguirsi di anticipazioni e sguardi rubati al futuro. Paradossale, per una band dal suono tradizionalista, “roots rock” se mai ne è esistita una, tanto da avere la parola “Revival” nel proprio nome.
E invece nei due capolavori che precedono questo “Pendulum”, John Fogerty e soci (il fratello Tom alla chitarra ritmica, Stuart Cook al basso, Doug Clifford alla batteria) gettarono più di un’occhiata all’avvenire del rock, tra paranoia, brividi proto-prog, foschi presagi wave e un’attitudine squisitamente DYI (John è stato anche il produttore di tutti i dischi della band fino a questo punto). Cinque dischi in tre anni, quattro nel biennio ’69-’70, una cavalcata strepitosa, forsennata, spontanea. Troppo, forse.
I critici dell’epoca imputano a Fogerty e soci un’eccesso di ingenuità, oltrechè una produzione scialba e una grave mancanza di profondità. Fa ridere leggere questi commenti oggi, ma a suo tempo il caro John non li doveva aver presi bene. Il contrasto tra il roots rock dei dischi precedenti e il pop-rock di questo “Pendulum” è ben marcato: quest’ultimo è prodotto con una cura certosina, tra cori e arrangiamentidi fiati, tastiere, e uno spruzzo di elettronica, laddove “Willy and the poor boys” e “Cosmo’s factory” avevano l’eleganza ruvida delle chitarre distorte e una sezione ritmica granitica. Qui invece, l’opening “Pagan baby” è un fulgido esempio di cavalcata con una chitarra che più CCR non si può, ma con un tempo più compassato: imborghesito da una pulizia del suono inusitata, oltrechè, crucialmente, dall’assenza di quell’angst che caratterizza la voce di John Fogerty nei suoi momenti migliori.
E il resto dell’album è ancora più pettinato: “Sailor’s Lament”, con le sue tastierine pulite, i suoi sax, il suo coro; “(Wish I could) Hideaway” e “It’s just a thought”, ballad struggenti, costruite su tappeti d’organo inauditi, finora, nel repertorio dei Creedence; “Born to move” è un’r’n’b riccamente arrangiamento, che sarebbe perfetto per uno dei numeri da musical dei fratelli Blues; “Hey Tonight” e “Molina” sono dei pezzi anche con un buon ritmo, ma mancano della melodia o, alternativamente, del mordente per diventare davvero indimenticabili, e il finale “Rude Awakening #2” è una lu(uuuu)unga simil-suite che parte vagamente prog (territori Genesis, diciamo) e arriva rumoristico-psichedelica, ma senza alcuna giustificazione, alcun messaggio, alcuna visione. La sensazione è di muoversi senzauna meta precisa, più per il gusto di avere un brano “concettuale” che per altro.
Oh, parliamoci chiaro, nessuno di questi pezzi è brutto, e solo un paio sono meno che discreti. L’intero lato A dell’album è comunque eccellente, ma a conti fatti c’è 'soltanto' un *C L A S S I C O N E* in questo disco, ovvero “Have you ever seen the rain”: dissolvenza al nero delle paranoie di John Fogerty, fosco presagio degli anni ’70 americani e miglior modo possibile di spendere due minuti e mezzo. Soltanto quest’ultima e la divertente “Chameleon” possono davvero stare al pari con le migliori canzoni dei CCR.
In un disco interamente scritto da John Fogerty, senza alcuna cover, questo è un chiaro segno che qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei Creedence. E infatti Tom Fogerty lascerà la band, in polemica col fratello, appena dopo l’uscita dell’album, una frattura che segnerà la fine del gruppo: a questo nome uscirà un solo altro disco di inediti, “Mardi Gras”, peraltro degno al più di una nota a piè di pagina rispetto ai giganti che lo hanno preceduto.
La breve, intensissima storia dei Creedence Clearwater Revival si chiude di fatto qui, con le visioni cupe di “Have you ever seen the rain” a profetizzare il lento, inesorabile collasso del Sogno Americano e quello, ben più veloce, della stagione rivoluzionaria degli anni ’60. Non ne fanno più, di rock così.
- Spartaco Ughi
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