Il 18 novembre di dieci anni fa vedeva la luce "Behind the Black Veil", disco del progetto Shadow Theory guidato da Devon Graves, alias Buddy Lackey, mastermind degli Psychotic Waltz, gruppo di culto fra i primi della scena prog metal a stelle e strisce. L'album così creato è un piccolo capolavoro sconosciuto all'interno del suo genere.
(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/yxfvxdzb)
Una volta archiviata l’esperienza con gli Psychotic Waltz, il leader del gruppo Buddy Lackey si trasferisce stabilmente in Austria, dove fonda con lo pseudonimo di Devon Graves i Deadsoul Tribe, gruppo che possiamo soprannominare anche Jethro Tool, per come combina il progressive vintage della band di Ian Anderson con quello moderno della band di Maynard. Dopo dieci anni e cinque dischi all’attivo, Graves/Lackey congeda anche i Deadsoul Tribe, e senza perdere tempo mette in piedi questo nuovo gruppo, The Shadow Theory.
Questa volta, pescandoli in giro per l’Europa, si avvale di veterani già rodati nella scena prog. Come spalla, dalla Germania viene reclutato come chitarrista di supporto Arne Schnupper, dai Complex 7. Dalla Svezia, al basso troviamo Kristoffer Gildenlöw, ex Pain of Salvation. Dietro le pelli, viene piazzato il drummer inglese Johanne James, dei Threshold. Infine, il ruolo di tastierista viene affidato al greco Demi Skotinis, unico membro dell’ensemble senza molte esperienze presenti sul proprio curriculum, conosciuto tramite corrispondenza multimediale.
Accantonate le sonorità alternative/tribali che hanno caratterizzato i lavori dei Deadsoul Tribe, le coordinate stilistiche su cui si muove Behind the Black Veil rappresentano un parziale ritorno alle origini da parte di Lackey, un heavy prog elegante e strutturato sulle orme dei suoi Psychotic Waltz, dei primi Queensryche, dei Savatage dei tardi anni 80, e su quel mood tenebroso che aleggiava sui lavori di King Diamond e dei Mercyful Fate. L’album, effettivamente, è un concept basato su una narrazione originale: una rockstar tossicodipendente che una sera, addormentandosi sul divano, piomba in un incubo horrorifico varcando il confine che delimita sogno e realtà, in cui deve vedersela con i suoi vizi e fantasmi del passato.
Il disco nella sua interezza risulta decisamente solido e articolato, in esso vengono sapientemente amalgamate partiture metalliche di matrice thrash/heavy americano, digressioni di prog raffinato e intermezzi acustici dal gusto settantiano. Un background che attraversa 30 anni di evoluzione della scena progressive e heavy. Le composizioni sono costruite con gusto e stile, ognuna è dotata di un proprio sapore caratteristico. Senza dover ricorrere a futili pipponi virtuosistici, troviamo molto apprezzabili anche le performance individuali di ogni singolo membro del progetto, alcuni di essi, Gildenlöw su tutti, trovano qui maggior risalto che nella propria band d’origine. Lackey/Graves, dovendo impersonare le vesti del narratore, offre la performance più eclettica e teatrale della sua carriera.
Non si tratta di un lavoro immediato, questo è certo, ma "Behind the Black Veil" risulta estremamente compatto nella sua non breve durata (beh, un’ora di musica non è che rappresenti poi chissà cosa, in ambito prog…) e non presenta momenti morti o punti deboli. Fra le composizioni più pregevoli, figura certamente la massiccia opener "I Open Up My Eyes", ottima presentazione per introdurre quello che ci si deve aspettare dall’album, riff massicci, cambi di tempo frequenti e partiture più pacate, e in tal senso il refrain che qui ne viene posto è un mirabile esempio. Come da tradizione che il mastermind conserva fin dai suoi esordi, fa capolino il flauto alla Ian Anderson, suo musicista preferito e da sempre fonte di ispirazione, che non manca di tributare a ogni occasione.
"Ghostride" è un altro pezzo possente di puro heavy/thrash, in cui l’intro acustico è solo la consueta 'quiete prima della tempesta'. "Welcome", anch’essa introdotta da un arpeggio acustico dal sapore country, è un’altra composizione coi fiocchi, il pezzo del lotto che più si ricollega ai Deadsoul Tribe, e che presenta anche uno dei pochi (ma ottimi) solo work. Sulle medesime corde anche "Sleepwalking", stavolta introdotta da inserti electro/industrial già collaudati. Col passato più remoto, questa volta risalente al periodo della combo Bleeding/Mosquito, mantiene un collegamento diretto "The Sound of Flies", song che sembra riproporre gli Psychotic Waltz in salsa 'mistery'. "By The Crossroads" è uno dei pezzi migliori in assoluto presenti sull’album, anche qui il gruppo gioca sul dualismo fra cavalcate heavy/thrash e break cadenzati dove sono le linee vocali e la loro funzione narrativa a prendersi la scena. "Snake Skin" fa altrettanto, stavolta senza neanche l’intro di avvertimento, ma sferra subito granitici riff, stavolta sono i Nevermore di "The Politics of Ecstasy" a riecheggiare. "Selebrate" rappresenta invece il momento più soft dell’album, dove viene messo in risalto il retaggio di Buddy Lackey a base del prog folkloristico dei Jethro Tull.
Le conclusive "The Black Cradle" e "A Candle in the Gallery" introducono quella che è la composizione più complessa e ambiziosa non solamente dell’album, ma anche di tutta la carriera di Buddy Lackey, ossia la superba "A Symphony of Shadows", una suite di otto minuti dai toni operistici cari ai Queen (e che tentarono anche i Savatage con "Streets").
La carriera del gruppo però non fece nemmeno in tempo a decollare. Giusto poco prima l’uscita del disco in questione, Buddy Lackey annuncia la reunion degli Psychotic Waltz, con cui torna pienamente operativo a breve facendo da spalla a Nevermore e Symphony X nel loro tour mondiale. Si chiude così, senza neppure presentare i pezzi dell’album in sede live, la parentesi The Shadow Theory. In ambito prog metal, possiamo considerare "Behind the Black Veil" uno dei lavori più affascinanti, originali e misconosciuti dell’ultima decade.
- Supergiovane
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