mercoledì 18 novembre 2020

Alan Parsons Project: "The Turn of a Friendly Card" (1980)

Nel novembre di quarant'anni fa veniva pubblicato "The Turn of a Friendly Card", quinto album dell'Alan Parsons Project, dedicato al tema del gioco d'azzardo, ispirato vagamente a "i Giocatori di Titano" di Philip K. Dick.



(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/y25v5low)

Dopo il mezzo passo falso del loro quarto album "Eve", gli Alan Parsons Project, ovvero il gruppo di musicisti di studio guidati dal produttore, ingegnere del suono e tastierista Alan Parsons e dal cantautore Eric Woolfson, si ricompattano dietro al duo con una nuova determinazione e una chiarezza di vedute.

L'idea, che alla fine ha sempre dominato il progetto, è quella di scrivere una musica di qualità che trova le sue radici idealmente nell'accessibilità creatrice dei Beatles, idoli giovanili di Eric Woolfson, e sonicamente nei Pink Floyd dell'era "Dark Side of the Moon", mantenendo al contempo qualità e portata popolare, e farlo attraverso un album a tema. Dopo album ispirati a Edgar Allan Poe, a Isaac Asimov e a "Io, Robot", all'esoterismo egizio di moda a fine anni settanta e al rapporto fra uomo e donna, il Project sceglie il gioco d'azzardo, a partire dalla lettura da parte di Woolfson de "i Giocatori di Titano" di Philip K. Dick.

Il problema del Project è che nei quattro album precedenti il suono si è via via diluito, divenendo più semplice e immediato di pari passo alla decadenza del progressive rock, e con più di un occhio al successo commerciale ottenuto da Pink Floyd, Supertramp e Genesis liberandosi man mano delle vestigia di quel genere. In "Eve" la musica risultava così divenuta poco interessante e priva di novità - dagli arrangiamenti orchestrali alla pletora di ospiti, tutto appariva già noto.

Lo slancio per un cambiamento radicale non arriverà prima del flop di "Ammonia Avenue" nel 1983 - ma nel frattempo il Project realizza due dischi di ottimo pop rock progressivo, questo "The Turn of a Friendly Card" e poi il celeberrimo "Eye in the Sky". In questi dischi, il gruppo riprende in mano la scrittura di "Pyramid" (1978) e "Eve" (1979) e da loro un taglio più moderno e AOR senza mai abbandonare la predilezione per suoni classici e refrattari a innovazioni come synth pop e new wave.

In "The Turn of a Friendly Card", allo scopo di rendere il suono particolarmente coeso, l'uso di ospiti è ridotto al minimo. Oltre a Woolfson e Parsons, ritroviamo l'arrangiatore e direttore d'orchestra Andrew Powell, il bassista David Paton, il chitarrista Ian Bairnson (tutti a bordo dal primo album) e il batterista Stuart Elliott (giunto due dischi fa). Per i cantanti, tutte le voci sono curate da due cantanti che hanno già lavorato col gruppo, ovvero Chris Rainbow e Lenny Zakatek, oltre a Woolfson e Parsons stessi, per evitare di disperdere troppo anche la natura dei cori e delle armonie vocali.

Unica eccezione, e unico ospite, è Elmer Gantry, che canta la canzone di apertura, ovvero "May be a price to play", un grintoso AOR che ci proietta già nelle coordinate soniche patinate del disco - patinate ma dal suono assolutamente naturale, suono perfetto, limpido e nitido come si addice a un disco prodotto da Alan Parsons. Ascoltatevi l'interludio strumentale della seconda metà della canzone, roba da far venire la pelle d'oca agli audiofili, con strumenti che si affiancano l'uno all'altro espandendo il suono in un crescendo orchestrale punteggiato dal basso funky e da un liquido, esaltante piano elettrico.

Da qui in poi sono 40 minuti di canzoni immacolate, perfettamente adeguate all'obiettivo prefissato dal gruppo: "Games people play" è un pezzo ritmato e scivoloso come un'anguilla; "Time" è uno dei capolavori della carriera del gruppo e una delle più grandi imitazioni dello stile compositivo di Richard Wright che chiunque abbia prodotto. La voce di Eric Woolfson, trattata sulle note alte per accentuarne l'effetto spettrale, dipinge un quadro di malinconia irreale, profonda, mentre la musica la culla come le onde una nave che solca gli oceani dello spazio-tempo.

"I don't wanna go home" e "The Gold Bug" sono probabilmente i brani più riempitivi, il primo caratterizzato da un'ottima prova vocale di Zakatek, il secondo ennesimo flirt del gruppo con la musica da film, in particolare morriconiana.

Segue poi quella che dovrebbe essere la magnum opus del disco, ovvero la suite da sedici minuti che da il titolo al disco - ma in effetti si tratta più di una sequenza di cinque brani autonomi, riusciti in particolare l'overture e la conclusione, affidate al timbro vaporoso della voce di Chris Rainbow, e il quarto movimento, la ballata "Nothing left to lose", mentre "Snake Eyes" (secondo movimento) appare più corriva così come l'ennesimo strumentale "Ace of Swords".

Che dire del disco, quindi? È il disco della maturità del suono del Project, quello che col successivo "Eye in the Sky" rappresenta il biennio classico della formazione. Disco impeccabilmente prodotto e suonato da musicisti dalla professionalità esemplare, non è un mero prodotto manierista, dato che emergono chiaramente la convinzione e l'impegno profusi nell'opera. Non si tratta però né di un capolavoro né del migliore album del Project, e nemmeno del loro periodo migliore.

Se il progressive rock è nelle vostre corde, il disco non potrà mai dispiacervi, anche se forse non entrerà nella vostra alta rotazione. Se invece il progressive rock non è esattamente nelle vostre corde ma apprezzate il rock classico da fine anni settanta, in "The Turn of a Friendly Card" potreste trovare un punto di ingresso ideale per quel mondo musicale.

- Prog Fox

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