giovedì 8 ottobre 2020

Talking Heads: "Remain in Light" (1980)

Quarant'anni fa oggi veniva pubblicato "Remain in Light", quarto album dei Talking Heads (official), fra i massimi gruppi della new wave americana. Dopo la trilogia iniziale, David Byrne, Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Frantz decidono di imprimere una decisa svolta al loro lavoro: con il fidato Brian Eno in cabina di regia, invece di costruire la musica sulle canzoni di Byrne, decidono di costruire le liriche di Byrne su musiche ottenute da un certosino lavoro di jam e loop influenzati dalla musica africana, sulle quali fanno intervenire gli assoli di chitarra di Adrian Belew, la tromba di Jon Hassell, la voce di Nona Hendryx.



(si può ascoltare l'LP completo qui: https://tinyurl.com/y2j8wpms)

Il dibattito su quale sia il disco migliore dei Talking Heads imperversa un po’ ovunque, ma soprattutto in questo dominio internet.

Nella sua recensione di “Fear of Music”, predecessore di questo “Remain in Light”, quella vecchia volpe del nostro comandante qui a C’eraunaeccetera ha messo nero su bianco che il trofeo si gioca tra l’esordio, il live “The name of the band is Talking Heads” e “Fear of Music”, appunto. Un sentimento abbastanza condiviso (ma non unanime, e forse nemmeno maggioritario) tra critica ed amatori, e non c’è dubbio che “Fear of Music” sia un album straordinario; chi scrive ha però qualche dubbio sulle motivazioni addotte per questa preferenza, ovvero la presunta concessione all’easy-listening degli album successivi, ed in particolare di questo “Remain in Light”.

Prendiamo a titolo esemplificativo il singolo più famoso da esso estratto, “Once in a Lifetime”: una canzone che si può definire “orecchiabile” solo tra virgolette, perchè tra la voce stentorea di David Byrne, la pioggia di suoni liquidi e le poliritmie, definire orecchiabile o radiofonico questo brano è davvero un po’ uno stretch.

Anche perchè il livello di sperimentazione in evidenza lungo tutto l’album non è secondo a nessun altra produzione dei Talking Heads: le già citate poliritmie, ovvero l’adesione di ogni strumento a linee ritmiche differenti (che, una volta sovrapposte, danno vita a strati ritmici complessi e avvincenti), sono la base fondante di “Once in a Lifetime”; l’ambiziosa commistione di generi, in particolare con influenze afro-caraibiche (ma c’è anche una traccia com “Houses in Motion” dalle influenze balcanico-gitane, o sono io che ho esagerato con le vitamine stamattina?) dona al disco un suono precedentemente inaudito, un passo avanti rispetto al già rivoluzionari White Funk degli esordi ; i testi e le interpretazioni di Byrne sono qui allo zenith della loro nevrotica idiosincrasia, e donano al disco una personalità spiccata, senza compromessi.

Per tutti questi motivi, chi scrive ritiene “Remain in Light” il miglior disco dei Talking Heads. “Once in a Lifetime” è uno dei singoli più provocatori e rivoluzionari mai distribuiti da una band di fama, e ad esso si aggiungono praticamente solo pezzi memorabili: al fulmicotonico trio che compone il lato A dell’LP, ovvero “Born Under Punches”, “Crosseyed and Painless” e “The Great Curve”, fanno da contraltare la pensosa “Seen and not Seen”, la malinconica ballad “Listening Wind” e la dark “The Overload” (che rimanda ai Depeche Mode di Black Celebration).

La produzione di Eno, l’impiego di turnisti specialisti di musica afro E, allo stesso tempo, i tanti solo di synth-guitar di quell’adorabile esponente della razza umana chiamato Adrian Belew (qui collaboratore quasi a tutto album) mettono al mondo qualcosa di davvero nuovo, davvero sperimentale, la cui gioiosa, cervellotica ascoltabilità è un merito, nonchè marchio di fabbrica di tutte le cose Talking Heads.

Ma non prendete la mia parola per buona: ascoltateveli, ‘sti benedetti Talking Heads,perchè dover scegliere il vostro disco preferito in questo parterre de roi di capolavori è un piacere che non sapete di starvi perdendo.

- Spartaco Ughi

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