lunedì 21 settembre 2020

Tim Buckley: "Starsailor" (1970)

Il 21 settembre del 1970 venivano completate le incisioni - iniziate il 10 dello stesso mese - di "Starsailor", sesto album in studio del cantautore americano Tim Buckley, che con questo album si dimostrava forse il più grande cantante della musica rock e l'esploratore più audace delle profondità interiori del subconscio e dell'inconscio umano per via di uno stile che si avvicinava, in modo originale e personale, allo space rock più onirico ed estremo.



(il disco completo qui: https://tinyurl.com/y3phvlfo)

"Starsailor" è forse il capolavoro definitivo della carriera di Tim Buckley - e senza alcun dubbio contiene l'opera più famosa del cantautore americano, "Song to the Siren", una delle più grandi canzoni del secondo Novecento americano.

Nel 1970 Buckley sta proseguendo a passi da gigante la sua fuga astrale e psichedelica nello spazio, in forme che sono imparentate solo alla lontana con quelle dei gruppi di space rock inglesi come Pink Floyd e Hawkwind o con i corrieri cosmici tedeschi come i Tangerine Dream e Klaus Schulze. Tim, che aveva cominciato come austero cantautore folk, parte da un timido sposalizio con jazz e blues e arriva alla fine a essere il punto di contatto fra queste avanguardie spaziali europee e gli sperimentatori più estremi del rock americano, Captain Beefheart e Frank Zappa, che non a caso lo ha messo sotto contratto per l'etichetta fondata assieme al suo manager Herb Cohen.

"Starsailor" è un album non solo sperimentale ma anche completo. Tim Buckley, infatti, giunto alla perfetta maturità vocale, riassume le forme musicali già studiate e superate nei dischi precedenti e affianca loro le visioni più estreme e desolate raggiungibili dall'uomo.

Il lato A rappresenta al meglio questo riassunto e fa da preludio a questo viaggio: "Come here woman" e "I woke up" fluttuano fra lo stile di "Blue Afternoon" e "Lorca", variando tra atmosfere più sognanti e più viscerali alternando stilemi folk, jazz e blues; l'aggressiva "Monterey", costruita attorno a una ostinata figura di blues rock, parte da coordinate affini a Grateful Dead e Jefferson Airplane, pur se con una lettura del tutto personale e sempre più straziata dalla voce proteiforme e visionaria di Buckley, che mostra di avere anche ascoltato Robert Plant e i Led Zeppelin e di non essere per nulla un artista superbo o autocentrato; e quest'ultima impressione è rafforzata dalla umile "Moulin Rouge", canzone folk pop di grande classe e affabilità.

Ma è "Song to the Siren", posta non a caso alla fine del lato A, l'attimo di riflessione che precede il viaggio e che prepara psicologicamente all'odissea nello spazio del lato B, il punto in cui si legano al meglio il passato remoto del folk austero e il futuro prossimo del deliquio cosmico, delle stelle fredde, dei buchi neri, delle pulsar e delle quasar, degli oggetti stellari sconosciuti ai confini del nostro universo.

"Song to the Siren" è uno dei due brani simbolo dell'album e incarna in un certo senso la carriera tutta di Tim Buckley. Su una chitarra pesantemente effettata, il cantautore canta con la sua voce più romantica e tragica la disperazione di un amore o di una innocenza perduta - ma attorno a lui i fantasmi del passato solcano lo spazio presso la riva su cui si siede a contemplare il mare e il cielo, incarnandosi nelle sue seconde voci strazianti da brividi, da pelle d'oca, da lacrime inarrestabili.

Come una sorta di commiato, la canzone ci introduce al viaggio visionario del lato B: "Jungle Fire" inizia prendendo le proprie mosse dal finale del lato A, ma poi con la propulsione dei musicisti che lo accompagnano il caos ci attornia sempre più violento e deflagrante, fino al momento in cui il cantante viene lasciato solo dai compagni nell'ultima fase del suo viaggio - come Randolph Carter ne "il miraggio dello sconosciuto Kadath" di HP Lovecraft, solo a Tim Buckley è concesso di arrivare in fondo al percorso.

Nemmeno il suo ammiratore Peter Hammill, che sarà fra coloro che cercheranno di diffonderne il verbo con maggiore passione, toccherà vette di siderale solitudine universale - nessuno riuscirà a eguagliare il suono degli abissi spaziali della canzone che dà il titolo al disco, nella quale la voce di Buckley si interseca con se stessa nella distorsione spazio-temporale più estrema di questo universo.

Questo brano è certamente fra i momenti più estremi della storia del rock, e rappresenta anche un punto obbligato di arresto. La discesa verso terra prosegue prima con il viaggio spettrale di "Healing Festival" (che tutto sembra tranne che un processo di guarigione - il ritorno verso la Terra e la realtà, quando si è andati così lontano, non può che essere doloroso) e si conclude con il jazz folk astratto di "Down by the borderline", che ci riporta alle tematiche musicali di "Lorca" (1969), il suo album precedente.

Non c'è modo per Tim Buckley di andare oltre: i confini del cosmo sono stati raggiunti in "Starsailor" da un uomo accompagnato fino a un certo punto dai suoi compagni di viaggio, il fedele chitarrista Lee Underwood, l'amico poeta Larry Beckett, il bassista John Balkin, il batterista Maury Baker, e i fratelli Buzz e Bunk Gardner, sodali di Zappa, ai fiati. Ma la solitudine di "Song to the Siren" e "Starsailor" sono immersioni nell'Altrove di un uomo infinitamente solo e anche se a fine disco Buckley è tornato sulla Terra fra i suoi cari, nessun uomo può tornare davvero da quel luogo.

Dopo una pausa di due anni, sfinito dalla propria ispirazione, dalla droga e dall'incomprensione del pubblico e della critica, Tim cambia completamente genere e si rifugia in un soul rock a trazione erotica che non ha nulla a che vedere con la psichedelia, la musica cosmica e l'atmosfera onirica della sua fase migliore. Finirà per morire per un mix di alcool e droghe nel 1975.

- Prog Fox

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