giovedì 3 settembre 2020

Judas Priest: "Painkiller" (1990)

Anno 1990, data 3 settembre. Esce "Painkiller", dei Judas Priest. Stiamo parlando di un disco epocale, un capolavoro senza tempo dell’heavy metal. Ogni ulteriore presentazione risulterebbe superflua.



(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/y6e2ulrc)

Giunti al dodicesimo album da studio di una carriera che aveva da poco raggiunto i vent’anni di militanza, con i membri del gruppo che stavano andando per i quaranta (Glenn Tipton li aveva anche già superati da un po’…), in pochi avrebbero scommesso su un lavoro di tale portata. Anche alla luce dei due precedenti lavori.

Con "Turbo", sfruttando la spinta propulsiva della moda del momento, la band tentò di approcciare una fetta di pubblico più vasta, proponendo un ibrido fra metal e hard rock radiofonico, e facendo un grosso buco nell’acqua. Fatti i conti con questo flop, i Priest tornarono sui loro passi, tornando al vecchio, ormai prevedibilissimo stile, producendo "Ram It Down", album insipido, tendente allo stantio. La cover di "Johnny B. Goode" era il momento più alto del disco. Del resto, Marty McFly aveva lasciato il segno, in quegli anni.

La band si prese una piccola pausa, salutò il batterista Dave Holland (rip), loro compagno per dieci anni. Al suo posto, venne reclutato il pirotecnico batterista dei Racer X Scott Travis.

Con il nuovo compagno, il quintetto di Birminghan (composto dai fondatori e militanti di lunga data KK Downing, Glenn Tipton, Ian Hill e Rob Halford) compose il disco più veloce, potente, pesante, tecnico, cazzuto della loro longeva carriera. Un disco che segnò un rinnovamento della loro carriera e dell’intero genere, puro Heavy Metal, un manifesto volto a rappresentare l’inossidabile indistruttibilità del metallo. Un disco che sconfina e mette piede in territori heavy/power/speed metal di matrice americana, il genere che loro più di chiunque altro hanno contribuito a ispirare.

L’immortale titletrack, posta in apertura del disco, fece subito la storia: intro di uno scatenato Travis (di gran lunga il miglior batterista che i Judas abbiano mai avuto, capace di permettere al gruppo di compiere un salto di qualità pazzesco, con buona pace del compianto Holland) che mena fendenti a destra e manca, la coppia di chitarre che ruggiscono, letteralmente, e Halford che dà sfoggio della sua potentissima ugola come mai aveva fatto in passato. Sei minuti estremamente tirati che girano a ritmi elevatissimi, un continuo susseguirsi di riff taglienti debitamente intrecciati, falsetto che tocca vette siderali, sezione ritmica compatta e di una precisione chirurgica, doppia cassa a ciocco e drumming forsennato, una nutrita lunga sequenza di assoli al fulmicotone, ogni singolo membro della band offre il meglio delle proprie possibilità in questo pezzo. Il tutto ordinato in modo dannatamente accattivante e assimilabile. Si fa fatica a sostenere che Painkiller non sia uno dei migliori pezzi heavy metal mai sentiti.

Forse, vista l’imponenza della canzone in questione, qualcuno con il tempo ha dimenticato che su "Painkiller" figurano altri nove pezzi di livello compreso fra l’ottimo e il buono. "Nightcrawler" è un’altra cavalcata metallica memorabile, in cui il gruppo impiega tutta la grinta e la cazzuttagine che detiene in possesso. Non è il pezzo simbolo dell’album solamente perché soffre dello scomodo confronto con la title track. "Touch of Evil" è invece un mid tempo giocato più sulla forma-canzone standard, in cui melodie, strofe e ritornelli prendono il sopravvento sulla sezione strumentale. Questo è il terzetto di punta dell’album.

Ma sarebbe criminoso non degnare nemmeno di una menzione la poderosa "Hell Patrol", la old fashioned dal gusto sabbathiano "Between the Hammer and the Anvil", e quell’altra mazzata che risponde al nome di "All Guns Blazing".

Un plauso alla produzione, impeccabile e capace di pompare e valorizzare a dovere la potenza dei suoni di ogni singolo strumento, non una cosa tanto scontata per gli standard dell’epoca.

L’album entrò subito di diritto nella storia dell’heavy metal, chiudendo il cerchio cominciato con gli esordi dello stesso gruppo, gruppo che ha prima ispirato e poi tracciato attraverso la NWOBHM i punti cardine del genere, passando da "Sad Wings of Destiny" fino a "Defenders of the Faith".

Il successo del tour culminò lo stato di grazia del gruppo, completamente rinvigorito e rinato dopo una fase di stallo in cui sembravano a corto di idee e motivazioni. Qualcosa però andò storto: esistono varie versioni e speculazioni sull’accaduto, fatto sta che al termine del tour Rob Halford abbandonò il gruppo per intraprendere la carriera solista, e i Judas Priest senza il proprio frontman dovettero giungere alla decisione di chiudere (temporaneamente) i battenti.

Il gruppo si sciolse, per poi rimettersi in piedi quattro anni dopo, nel ’96, con l’allora sconosciuto Tim “Ripper” Owens al posto di Halford. Il gruppo proseguì sulla strada di "Painkiller", appesantendo ulteriormente il proprio sound, sulla scia del groove metal. Alcuni anni dopo, nel 2003, Halford tornò ad essere il cantante dei Judas Priest, proseguendo una carriera che dura tutt’ora. Senza, tuttavia, riuscire più a comporre un lavoro che almeno potesse avvicinarsi ai fasti di Painkiller.

- Supergiovane

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