sabato 22 agosto 2020

Mudvayne: "L.D. 50" (2000)

Anno 2000, data 22 agosto. Esce l’esordio degli americani Mudvayne, intitolato L.D. 50. In pieno fermento per il rinnovo della scena metal, e sulla forza propulsiva del successo planetario degli Slipknot, i Mudvayne contribuiscono ad arricchire il genere con una pietra miliare considerata da alcuni critici il miglior lavoro del filone NuMetal in assoluto.





Il merito che va riconosciuto al gruppo, formatosi nella seconda metà degli anni 90, è quello di aver proposto un album estremamente vario dalle molteplici influenze musicali: partendo da una base di pesantissimo crossover, le composizioni sono impregnate di alternative e groove metal, death metal groovizzato (alla Obituary del periodo The End Complete e World Demise, per intenderci), rap-core, funky, sprazzi di prog, industrial e tante altre sfumature di generi disparati.

Le prioritarie fonti di ispirazione si possono identificare nei “padrini” del metal di nuova generazione ossia i Korn e i Coal Chamber, poi Pantera, Machine Head e Sepultura post Chaos A.D., il grunge metallico degli Alice in Chains, l’alternative funkeggiante degli Incubus e l’alternative crossover progressivo e mistico dei Tool.

I Mudvayne si distinguono anche per essere dei signori musicisti, e non risparmiano sprazzi di virtuosismi qua e là, senza perdersi in pipponi autoreferenziali. Su tutti, spicca il bassista Ryan Martinie, slappatore di prim’ordine, uno che ha deve aver fatto il suo apprendistato ascoltando all’infinito Les Claypool dei Primus. Il singer e leader del gruppo Chad Gray si mostra un cantante estremamente duttile, pienamente a suo agio sia nei vocalizzi rudi alla Max Cavalera e Phil Anselmo, sia nelle sfuriate isteriche alla Jonathan Davis, e sia nelle clean vocals, in cui adotta uno stile a metà fra Brandon Boyd e Chester Bennington.

Il gruppo si affida a un’immagine iconica volutamente provocatoria e trasgressiva, mettendo in scena mascherate a base di bizzarri face painting e costumi di scena. Inoltre, la casa discografica (la Epic/Sony) si rifiutò di pubblicare i testi sul booklet dell’album, ritenuti troppo estremi anche con il consueto bollino “Parent advisory”. L’acronimo L.D. 50, a cui viene dato il nome all’album, sta a indicare un mix di sostanze tossiche e radioattive in grado di provocare la morte sulla metà dei campioni testati. Una chiara dichiarazione di intenti sul livello di distruzione sonica dell’album.

L’alienante intro Monolith (chiaro riferimento a 2001:Odissea nello spazio) fa da apristrada a Dig, classica hit distruttiva, accattivante, immediata, cazzuta, diretta e senza tanti fronzoli, ottima scelta per presentarsi al grande pubblico. I restanti 15 pezzi dell’album (contando anche gli intermezzi), sono più articolati e variegati, e su tutti spiccano Death Blooms (pezzo dedicato da Grey alla lotta della nonna contro la propria malattia), altra megahit del disco, e la funkeggiante Nothing to Gein, con riferimento all’ Ed noto serial killer americano.

-1, Under My Skin, Internal Primates Forever e Cradle sono altri esempi di come il gruppo sappia diversificare il proprio songwriting componendo pezzi dalle svariate sfaccettature e di immediato impatto, senza riciclare idee, buttare lì filler come riempitivi o scadere nella pacchianità.

Il disco rappresentò un ottimo successo di critica e pubblico, sfondando la barriera del milione di copie vendute. A distanza di vent’anni, suona ancora fresco e personale, lontano dal becero stantio modaiolo che contraddistinse molti altri gruppi spuntati come funghi da lì a breve che sfruttarono l’onda del momento di un genere, il nu-metal, che esaurì presto le proprie migliori cartucce.

- Supergiovane

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