venerdì 21 agosto 2020

Alice in Chains: "Facelift" (1990)

Vedeva la luce il 21 agosto di trent'anni fa "Facelift", il primo full lenght degli Alice in Chains, una delle principali band grunge di Seattle. Stiamo parlando chiaramente di un lavoro seminale, che ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione e nel successo del genere.



(si può ascoltare il disco completo qui: https://tinyurl.com/yytlyae4)

Correva l’anno 1990, siamo a Seattle: il 21 agosto usciva "Facelift", album di debutto degli Alice in Chains. All’epoca, i Soundgarden erano ancora alle prese con la loro personale evoluzione stilistica, figlia di uno stoner’n’roll sabbathiano dalle suggestioni psichedeliche. I Nirvana, invece, erano reduci dal loro esordio "Bleach", rozzo, abrasivo, immaturo, ancora ancorato sugli ibridi noise punk con cui Cobain stava in fissa dall’età adolescenziale: un lavoro tanto grezzo quanto promettente.

Eccoci nella nuova decade, millenovecentonovanta. Nessuno ancora sapeva che significasse grunge, era un termine che veniva usato solamente nello slang americano, volto a indicare qualcosa di marcio, sporco, quello che si respirava nei sobborghi di periferia. Dalle ceneri degli Alice N'Chainz, nati come gruppo hair metal di bassa lega, definiti dagli stessi fondatori come una band di travestiti che cercavano di suonare speed metal, rinascono con una seconda nuova vita gli Alice in Chains, guidati dal cantante Layne Stanley e dal chitarrista Jerry Cantrell, e coadiuvati da Sean Kinney dietro le pelli e dal bassista Mike Starr.

Prende così forma il terzo dei quattro punti cardinali su cui vengono triangolate le traiettorie del nascente nuovo sound di Seattle. Il grunge. Quello più cupo, ruvido, distorto, con mezzo piede piantato su territori metal. Forse, se a nessuno fosse venuto mente di coniare il termine grunge per indicare questo nuovo movimento musicale, oggi ricorderemo "Facelift" degli Alice in Chains come uno dei più seminali album di alternative metal. Forse.

"We Die Young", pezzo che apre l’album, anticipato un mese prima da un mini ep di lancio, suona già come un incipt della nascente generazione grunge, imperniata su un decadente nichilismo, e anche di una tormentata poetica. Quando parliamo di Nirvana, Soundgarden o Pearl Jam, chiunque non può fare a meno di identificare i suddetti gruppi nella figura dei rispettivi frontman, Cobain, Cornell, Vedder. Per gli Alice in Chains, non funziona allo stesso modo: Layne Stanley con la sua particolarissima voce pungente e distorta ha conferito un tocco unico alle composizione degli AiC, ma il vero leader spirituale del quartetto fu fin dagli albori Jerry Cantrell. Perlomeno, fino a Jar of Flies e alla svolta stanleyana del seguente album omonimo che causò lo split.

Oltre a condurre la sezione ritmica ornandola con i suoi acidi assoli, si occupava delle backing vocals sincronizzate, inoltre figura come autore di vari testi, da autentico concept artist. Per inciso, due terzi dei testi dei brani che compongono "Facelift" sono opera sua. "We Die Young" prende appunto spunto da una riflessione di Cantrell, nell’osservare un gruppo di ragazzini su un autobus, già in possesso di telefoni cellulari e gadget all’avanguardia, fra cui un cercapersone con cui (presume) gestissero il traffico di droghe sintetiche della zona. Una generazione già votata allo sbando e all’autodistruzione. Temi come la dipendenza da droghe saranno sempre ricorrenti nell’immaginario lirico del gruppo.

Il pezzo inizialmente partì in sordina, faticando a farsi strada fra le frequenze fm. Fu solo con il supersingolo successivo, "Man in the Box", che il gruppo fece il botto. Più cadenzato e accattivante rispetto all’opener, forte di un riff portante memorabile costruito con l’ausilio di un talkbox retrò e di uno dei più anthemici refrain dell’era grunge, il pezzo spazzò letteralmente via la concorrenza nelle charts dell’epoca. Una delle quattro liriche firmate da Stanley, il brano, dall’ambiguo significato metaforico, spesso viene erroneamente visto come un grido di sofferenza di un uomo (Stanley, appunto) intrappolato nella sua dipendenza da crack e speedball. In realtà, in un’intervista dell’epoca i due leader del gruppo spiegarono che con "Man in the Box" affrontavano la tematica di un comune cittadino intrappolato fra la censura del proprio pensiero e il bombardamento mediatico imposto dal sistema.

Basta soltanto la doppietta iniziale a proiettare gli Alice in Chains dritti dritti nell’olimpo del rock novantiano. Il resto dell’album spazia fra altri ottimi pezzi, fra cui si distinguono la catchy "Ain’t Like That" (composta sulla falsariga di "Man in the Box") e la sofferente, pachidermica, suonata in slow motion "Love, Hate, Love", dove Stanley offre un assaggio della sua tribolazione emotiva traslata in musica.

Si aggiungono agli highlight del disco anche il blues distorto di "Sea of Sorrow" e l’outsider "Bleed the Freak", forse il pezzo più sottovalutato del lotto.

Un caso a parte lo rappresenta "Sunshine", composizione che mostra ancora una struttura debitrice dell’hard rock patinato a stelle e strisce facente parte del loro retaggio, che nella seconda metà sfocia nella metamorfosi grunge che contraddistingue il mood di "Facelift".

La definitiva consacrazione arriverà poco tempo dopo, quando toccherà a "Dirt" completare la crescita del quartetto guidato dalla coppia Stanley – Cantrell. "Facelift" resta, se non un capolavoro, un album da novanta.

- Supergiovane

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