martedì 21 luglio 2020

Syd Barrett: "Barrett" (1970)

Il 21 luglio di cinquant'anni fa viene completata la registrazione di "Barrett", il secondo album del cantante e chitarrista inglese Syd Barrett, ex-membro fondatore dei Pink Floyd e all'epoca già transfuga del gruppo da un biennio. Il disco verrà pubblicato il 14 novembre del 1970



(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/y2bko76a)

Il primo disco solista di Syd Barrett, "The Madcap Laughs", registra vendite sufficientemente buone da giustificare l'investimento per un secondo album dell'ex-Pink Floyd. Barrett, però, ha ormai preso una rotta che non lo vede solo come stralunato o lunatico cantore delle fiabe psichedeliche di "The Piper at the Gates of Dawn". C'è qualcosa di più sotto. I suoi amici ed ex-compagni sono preoccupati per lui e probabilmente nessuno all'epoca ha gli strumenti per capire cosa gli stia succedendo. Apatia, disconnessione dalla realtà, problemi a focalizzare l'attenzione, che siano causati da depressione, malattia psichiatrica o droghe, preoccupano i Pink Floyd che gli sono sempre rimasti vicini anche dopo la sua estromissione dal gruppo, forse perché se ne sentivano in colpa.

"The Madcap Laughs" era stato portato a termine grazie all'intervento decisivo di Roger Waters e David Gilmour, rispettivamente bassista e chitarrista dei Pink Floyd. Quando viene messo in lavorazione un nuovo album, David Gilmour viene affiancato stavolta dal loro tastierista Richard Wright e da un altro amico di Gilmour e Barrett, il batterista Jerry Shirley degli Humble Pie, bendisposto a prestare il proprio supporto, come aveva fatto durante le incisioni del primo album.

Se "The Madcap Laughs" era un disco sconcertante e segnato da una certa inquieta oscurità, che implicava nell'ascoltatore meno distratto la lenta discesa verso l'instabilità mentale, "Barrett" è il disco di una mente ormai compromessa, e tanto più spaventoso quanto appare dimesso e innocente nel suo distacco dalla realtà. Syd entra per la prima volta in studio il 26 febbraio e in un totale di quindici sessioni complessive termina le registrazioni il 21 luglio.

Musicalmente, questo secondo disco di Syd Barrett, oltre a reggersi perfettamente sulle proprie gambe, è anche meglio rispetto al precedente: Wright, Gilmour e Shirley forniscono infatti una coerenza sonora che mancava in "The Madcap Laughs", facendone un lp di freak-rock parente delle coeve escursioni di un Kevin Ayers, per esempio. La presenza di Wright è garanzia di un tocco pinkfloydiano classico, mentre Shirley si dimostra un batterista versatile ed elastico, adattissimo a seguire gli imprevedibili saliscendi di Syd.

Tutto ciò, però, mette a nudo ancora di più il livello di disconnessione di Syd dal resto dei suoi amici.

Alcune canzoni ancora funzionano bene, eredi dirette delle filastrocche di due o tre anni prima: ma anche in quelle più normali, come l'ottima "Baby Lemonade" che apre il disco, nella quale Syd appare presente a se stesso, la fragilità e l'arbitrarietà emergono dalla ritmica irregolare che si fa avanti sempre di più nel corso del brano, che si regge tutto sulla capacità di Shirley di tenerlo insieme. La successiva "Love Song", un altro dei momenti più elevati del disco, è canzone struggente, da lacrime agli occhi per il testo semplice e poetico e per l'infinita, malinconica dolcezza della voce di Syd, accompagnato da un Wright in stato di grazia che recupera il suo stile dei primi tre dischi dei Pink Floyd per colorare il brano.

La deprimente "Dominoes" ci mostra invece lo squarcio totale fra Barrett, il suo gruppo di accompagnamento e, di conseguenza, la realtà. Quando Barrett si infila in questi 'bad trips', il disagio mentale che possiamo intravedere nella sua voce e nel suo sguardo catatonici, perduti, fa male, e non c'è nulla che Gilmour e soci possano fare con i loro arrangiamenti delicati e precisi per porre un limite alla nostra sofferenza che riecheggia la sua. Peggio ancora "Rats", in cui il ritmo convulso del brano e la recitazione maniacale di Barrett esprimono ancora più chiaramente la sua instabilità, o la straniante, diperata "Wolfpack", sul lato B, in cui un Barrett inusualmente vitale e angosciato sembra prendere coscienza delle ombre che lo assalgono come lupi e attentano alla sua salute psichica.

"Maisie", che chiude il lato A, è un bizzarro riempitivo blues in cui Barrett canta con la sua voce più bassa; "Gigolo Aunt", a inizio di lato B, vede Barrett molto più presente che nella seconda parte del lato A, lasciandoci una impressione di ritrovata vitalità anche grazie a qualche breve riff di chitarra che ci ricorda ciò di cui Syd era capace con i Pink Floyd (sebbene l'assolo finale ci lasci il dubbio di un intervento artefatto di Gilmour).

"Wined and Dined" è una delle canzoni con la struttura più coerente: non a caso era stata scritta da Barrett diversi anni prima. La slide sinuosa che appare nel disco è stata suonata da Gilmour. Il disco si conclude con una tipica filastrocca alla Barrett, "Effervescing Elephant", una nota di ottimismo fiabesco e disimpegnato che non riesce però a nascondere il senso di disagio che si prova nell'ascoltare questo album.

Il batterista Jerry Shirley, che merita un encomio anche solo per avere avuto il coraggio e il cuore per aiutare Syd a concludere l'album, disse delle sedute di registrazioni, che Barrett "would never play the same tune twice. Sometimes Syd couldn't play anything that made sense; other times what he'd play was absolute magic." A quanto raccontano i suoi amici, Barrett dava indicazioni su come voleva gli arrangiamenti in modo del tutto bizzarro, come "Perhaps we could make the middle darker and maybe the end a bit middle afternoonish. At the moment it's too windy and icy".

"Barrett" è, assieme a "The Madcap Laughs", un ascolto inquietante e terribile, straniante e molto, molto triste. Se è vero che altri musicisti hanno permesso al mondo di dare un'occhiata alla loro dissonanza mentale caricata di droghe, come gli americani Skip Spence e Roky Eriksen, nessuno lo ha fatto con la chiarezza di Barrett, che ha potuto dedicare ben due album alla descrizione della sua frammentazione in pezzi. Forse la visibilità dovuta al contemporaneo successo dei Pink Floyd, e il suo completo ritiro dal mondo, avvenuto nel 1974 dopo alcuni fallimentari tentativi di proseguire la propria carriera musicale, hanno reso la favola malinconica del diamante pazzo un archetipo che nessuno dopo di lui potrà eguagliare facilmente. Per fortuna.

- Prog Fox

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