martedì 7 luglio 2020

Dark Tranquillity: "Haven" (2000)

Il 7 luglio di vent'anni fa veniva pubblicato "Haven" degli svedesi Dark Tranquillity. Con "Haven" i Dark Tranquillity sfoderano il loro album più coraggioso, innovativo e intrigante. Ma al contempo anche uno dei loro prodotti meno riusciti.



(il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/y7yols78)

Il 7 luglio del 2000 viene pubblicato "Haven" dei Dark Tranquillity, uno dei gruppi più significativi della scuola di Gotheborg insieme ai “cugini” In Flames.

Assieme a questi ultimi, il gruppo prosegue, seppur su rotaie differenti, il suo percorso evolutivo, allontanandosi sempre più da sonorità death primordiali per sperimentare soluzioni più originali, mischiando e shakerando distorsioni metalliche con synth pop et similia.

Con "Haven" i Dark Tranquillity sfoderano il loro album più coraggioso, innovativo e intrigante. Ma al contempo anche uno dei loro prodotti meno riusciti. Uscito a meno di un anno dal precedente "Projector" (uno dei loro album simbolo, rivalutato e acclamato a scoppio ritardato), in cui venivano battuti terreni finora inesplorati grazie a un ampio uso dell’elettronica combinato con una rinnovata ispirazione compositiva, il gruppo sposta ulteriormente l’asticella in direzione della tecnologia, avvalendosi di un ancor più massiccio ausilio di synth e keyboards, che qua svolgono un ruolo quasi predominante, grazie all’ingresso in pianta stabile del tastierista Martin Brändström, il quale diventerà una delle colonne portanti del sestetto svedese.

Sarà stato il breve lasso di tempo impiegato per comporre l’album , o sarà che ancora i Dark Tranquillity dovevano prendere dimestichezza con queste nuove sperimentazioni sonore, fatto sta che "Haven" nel complesso suona eccessivamente monocorde, le composizioni sono troppo omogenee fra loro, troppo similari, troppo prevedibili. Un esperimento riuscito a metà, diciamo.

Ciò non toglie che i pezzi buoni non manchino, su tutti spicca l’iniziale "The Wonders At Your Feet", pezzo divenuto uno dei loro cavalli di battaglia (e che detiene il primato di canzone eseguita più volte dal vivo), magistrale esempio di come il gruppo abbia incorporato il programming elettronico con il loro tipico decadente melodeath delle origini. Stanne, nonostante all’epoca fosse alle prese con problemi alle corde vocali, si mostra maturato per quello che concerne l’approccio armonico delle linee vocali e le proprie capacità espressive. Da segnalare anche i testi, sempre profondi, originali e mai banali.

Il resto dell’album non è altezza dell’opener, ma si segnalano positivamente anche le varie "Not Built to Last", "Feast of Borden" (molto intrigante l’apporto delle tastiere e sintetizzatori), "Fabric" e la più elaborata del piatto "At Loss for Words", con cui si chiude l’album. Una scelta stilistica molto intrigante, ma ancora acerba e che doveva essere ancora affinata e sviluppata a dovere.

Ovviamente, i fan integralisti, quelli a cui si gela il sangue nelle vene al solo udire una clean vocal e a cui si accappona la pelle nel sentire qualcosa di elettronico che non sia la chitarra o il basso, non digerirono per nulla l’album. Lo stesso gruppo, seppur senza tornare sui propri passi e senza rinunciare all’uso dell’elettronica, ripristinerà parzialmente la durezza degli esordi, o meglio del loro periodo d’oro di "The Gallery", tornando a martellare con il seguente "Damage Done", considerato un altro importante caposaldo del gruppo, con cui torneranno a mettere d’accordo tutti. O quasi.

- Supergiovane

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