(l'album completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/ybsyegaw)
Il titolo “Cosmo’s Factory” è ispirato dal magazzino in cui i debuttanti CCR si riunivano per prove e jam session, che il suo proprietario, nickname Cosmo appunto, aveva ribattezzato “la fabbrica” per via della frequenza quotidiana di tali sessioni, un vero e proprio day job imposto dallo stakanovista leader John Fogerty.
E stakanovista la band lo sarà anche quando sulla cresta dell’onda: “Cosmo’s Factory” non solo è il loro quinto disco IN DUE ANNI, ma è anche l’apice di un processo di evoluzione stilistica fulminante, nonché rimarchevole successo commerciale per una band che ha sfuggito i cliché e gli stilemi del divismo rock (durante quella che può essere definita con pochi dubbi l’età dell’oro del genere), per mantenere uno status da eroi “working class”.
L’album rappresenta il pinnacolo creativo della band, quello in cui le tante, differenti passioni del cantante-chitarra solita-tastiere-sax-compositore, nonché padrone indiscusso del brand, si incontrano e si abbracciano, talvolta mescolandosi ma più spesso stando ben dritte e impettite l’una di fianco all’altra, felici di coesistere ciascuna con la propria individualità. Rock’n’roll, rockabilly, soul, r’n’b e psichedelia si spartiscono lo spazio su un disco ricco di momenti differenti, con nient’altro che la voce di Fogerty e il fervore della sezione ritmica a fare da collante, rendendo omogeneo un disco che in altre mani sarebbe stato ben oltre la schizofrenia.
E invece c’è spazio per un’interpretazione piuttosto fedele del r’n’b di “Before accuse me” di Bo Diddley, ma anche per una versione più rockettara di un altro r’n’b, “My baby left me” di Arthur Crudrup; il trattamento fedele del rockabilly di “Ooby Dooby”, interpretata originariamente da Roy Orbison, fa da contraltare alla profonda trasformazione subita da “I heard it through the grapevine” di Marvin Gaye, che da sensualissimo soul diventa torrida, instancabile psichedelia, capace di generare un’estenuante assuefazione nell’ascoltatore còlto con la guardia abbassata.
A completare la tracklist ci sono alcune delle più notevoli composizioni di Fogerty nostro: l’indiavolato rock’n’roll di “Travelin’ Band” e il country-blues di “Looking out my backdoor”, l’inno rock di “Up around the bends” e la psichedelia conturbante e politica di “Run through the jungle”.
Soprattutto, a elevare quest’album nell’olimpo dei capolavori totali, c’è il trittico finale composto dall’epica (e politicamente carica) folk song “Who’ll stop the rain”, la succitata “I’ve heard it through the grapevine”, e dal soul-rock malinconico di “Long as I can see the light”.
L’antidivismo espresso da Fogerty e soci cementerà l’immagine integerrima dei Creedence, ma ne impedirà l’ingresso nell’immaginario collettivo, non attizzando le fantasie dei giovani adulti cui il rock era all’epoca indirizzato. Le lotte interne alla band faranno il resto, con le tensioni tra John e il resto dei membri, in particolare il fratello Tom, che ne causeranno la fine prematura dopo altri due dischi.
Ma questa è un’altra storia: cinquant’anni e qualche “rivoluzione nel mondo del rock” dopo (sì, le virgolette sono sintomo di sarcasmo, statece), i Creedence sono ancora un prodotto fresco, le cui qualità e apporto nutritivo sono garantiti dalla loro attitudine onesta ed integra. In una scena che, anche nei suoi esponenti migliori, aveva la tendenza a diventare junk food, i CCR offrono un menu sano e locally sourced che sacrifica il look per un gusto senza paragoni.
Forse dovrei smettere di scrivere recensioni prima di pranzo.
- Spartaco Ughi
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