mercoledì 28 maggio 2025

Gorillaz: "Demon Days" (2005)

Usciva il 23 maggio di venti anni fa "Demon Days", secondo album dei Gorillaz, progetto musicale guidato da Damon Albarn, meglio noto come leader e cantante dei Blur, e dal fumettista Jamie Hewlett.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/5b9khjaj)

Bollati tanto come operazione commerciale quanto come progetto laterale di Damon Albarn al tempo del loro "debutto", i Gorillaz, nati dalla mente del leader dei Blur e dal fumettista Jamie Hewlett, avevano venduto svariati milioni di copie dell'esordio omonimo e lasciato un'impronta non da poco, nello zeitgeist dei primi anni zero, con la leggendaria "Clint Eastwood". Con gli occhi e gli orecchi gonfi della saggezza data dal passare del tempo e dal senno di poi, quello che ai piú parve lo sfizio di una rockstar in cerca d'ispirazione divenne la piú precisa, disturbante immagine dei tempi che correvano allora e che, nel male o nel peggio, corrono tuttora. La messa a fuoco di quell'immagine, e la definitiva incoronazione di Damon Albarn a genio visionario, avvengono proprio vent'anni fa, quando viene dato alle stampe il primo capolavoro della band virtuale per antonomasia, che poi é il disco di cui state testé leggendo in queste righe, "Demon Days", prodotto da Danger Mouse e ricco di ospitate prestigiose, dai DeLa Soul a Ike Turner e molti altri.

L'album solidifica quella che diverrá il formato degli album del quartetto di cartoni animati con chirurgica precisione: attorno al cuore pulsante di un singolone come l'uber-classico dark pop di "Feel Good Inc.", Albarn e soci costruiscono un disco di cupo splendore, che suona minimale nonostante il generoso impiego di orchestre e cori, elettronica e rap, dance e noise rock; e che rimane tutto sommato accessibile, nonostante sia per larghi tratti un manuale pratico di cantautorato sperimentale, denso di atmosfere tutt'altro che easy-listening. Quello che in praticamente qualsiasi altro paio di mani si sarebbe sciolto in un esecrabile guazzabuglio diventa, per certi versi, il golden standard del modo moderno di intendere e fare la musica pop, concedendosi persino il lusso di essere un concept album sulle atmosfere plumbee degli anni di quella che la storia ricorda, riuscendo persino a non suonare ironica, come la guerra al terrore. Gli anni dell'imperialismo americano affamato di nemici e di oro nero, dell'attacco alle torri gemelle ancora negli occhi, della crisi ambientale che da palla di neve diventa slavina. I temi che lo fecero descrivere come "banale, polemico, isterico, pretenzioso" nel 2005 sono i titoli del TG delle 12.00, perchè neanche i tempi sono piú quelli di una volta, e continuano a diventare piú interessanti, se per interessi si intende l'interesse sul debito.

Se avete avuto la pazienza di seguirmi sin qui, potreste aver capito che "Demon Days" é un capolavoro. I singoli oltre a "Feel Good" sono orecchiabili quanto strambi, se paragonati al contesto di Radio/MTV in cui si trovavano: lo straniate miscuglio funk-rap con inserti arabeggianti di "Dirty Harry", il dance-pop minimalista di "Dare", e soprattutto la meravigliosa malinconia acustica di "El Mañana", impreziosita da arrangiamenti orchestrali di eterea delicatezza. Ma, come accadrá con perfetta regolaritá in tutti i dischi "maggiori" di 2D e soci, sono soprattutto i non-singoli a sparare i colpi piú letali. Brani come "Last Living Soul", "O Green World" e "Every Planet We Reach Is Dead" letteralmente rigurgitano di idee splendide e geniali, ciascuno un piccolo viaggio a cavallo di una melodia ostinata o, al contrario, cambiandone quattro o cinque, come autobus in un viaggio scomodo in qualche landa di provincia; sopra un bridge inaspettato, su per un crescendo psichedelico vertiginoso o inchiodando di botto per un break etereo e fascinoso. E bada bene, o tu che leggi, che di tracce questo disco ne ha 14 (piú una breve intro), e c'é piú varietá qui che in intere discografie altrui, tra il noise rock di "White Light" (ovvia citazione dei Velvet Underground, e infatti Lou Reed sará ospite nel successivo "Plastci Beach"), i molti inserti di rap e hip hop, sempre parte di una torta a strati con momenti di canzone pop, e le molte sezioni di musica classica moderna travestite da omaggio ai Beach Boys. C'é persino spazio per un recitato di sua pericolositá Dennis Hopper, che ci racconta una favola ambientalista a proposito di una montagna bellissima, cimitero di milioni di splendide anime, che delle "strane genti" si mettono ad estrarre per alimentare le loro rumorose macchine puzzolenti (lo sapete da dove viene il petrolio, sí?). A chiudere la kermesse ci pensa il FE-NO-ME-NA-LE dittico composto ds "Don't Get Lost in Heaven" e "Demon Days", in cui un coro che definiremo per brevitá "greco" ci dá la morale della storia, parlando di un mondo-paradiso con i cancelli chiusi, in cui non ci si puó fidare nemmeno dell'aria che si respira, in cui le bugie diventano realtá e non ci resta che rincoglionirci con droghe e TV (e meno male che di lí a poco sono arrivate le reti sociali, a farci smettere di fumare dal tubo catodico).

Dove sono finiti i carotni animati pieni di buoni sentimenti e messaggi positivi di una volta?

- Spartaco Ughi

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