martedì 30 giugno 2020

Queen: "The Game" (1980)

Quarant'anni fa oggi usciva anche "The Game", ottavo album in studio dei Queen, disco che segnava la fine della fase più propriamente rock del gruppo in favore di una fase pop rock che abbracciava almeno superficialmente linguaggi più moderni fatti di new wave e sintetizzatori.



(il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/yc588jzq)

Dopo la pubblicazione del doppio disco dal vivo "Killers" nel 1979, per i Queen arriva il momento di una svolta a livello sia di forma sia di contenuti. Intanto, si tagliano i capelli e si rifanno un look da gruppo power pop anni '80, tranne l'inossidabile rocker Brian May; e poi abbandonano dopo un decennio la scelta, rivendicata con orgoglio nelle note di copertina dei dischi, di rifiutare sintetizzatori e drum machine. Sono gli anni ottanta, bellezza.

Mettendo il disco sul platter e ascoltando la prima canzone, ce ne rendiamo conto solo dopo due minuti dall'inizio, dopo esserci immersi nel bagno ristoratore dei cori di Mercury e soci, del basso liquido e gorgogliante di John Deacon e nel solito picchiare ritmico di Freddie sul pianoforte. L'uso del sintetizzatore per introdurre un meraviglioso assolo di Brian May è poco più che infantile, è abbastanza chiaro che il gruppo di certi ritrovati della tecnologia ancora non sa bene che farsene, ma forse meglio così, visto che "Play the Game" è l'ennesima ballata capolavoro del gruppo, che con l'usuale leggerezza sa confezionare una piccola opera di genio e giustapposizioni con gusto.

Sono i due pezzi successivi a farci impattare con forza nel nuovo corso dei Queen, influenzato dalla disco music, dal funky e dal soul: "Dragon Attack" e "Another one bites the dust" (scritta da Deacon e ispirata a "Good Times" degli Chic, il cui bassista Bernard Edwards ammirava) però non sono banale dance pop o imitazioni disco, ma contengono, grazie sia ai riff di basso di Deacon, sia agli assoli lancinanti di May, momenti di vera e propria minaccia. "Another one bites the dust" verrà pubblicata come singolo su suggerimento di Michael Jackson e venderà sette milioni di copie, il singolo più venduto della band in America.

Anche gli altri due singoli del disco, "Crazy little thing called love", un omaggio a Elvis Presley e al rock anni cinquanta, anch'essa guidata da un riff memorabile di Deacon al basso e da un bellissimo solo di May, e la conclusiva "Save me", l'altro grande capolavoro del disco, conseguono un ottimo successo di critica e di pubblico, elevando l'album probabilmente oltre i suoi meriti medi. C'è infatti da dire che, un po' come il precedente "Jazz", il disco vede il gruppo indugiare in una serie di riempitivi certo non di alto livello ("Don't try suicide"; i pezzi del batterista Roger Taylor "Coming soon", e "Rock it (prime jive)"; "Need your loving tonight"), pur se nessuno imbarazzante.

Meglio fa, seguendo senza scossoni lo stile dei Queen 1977-1979, la ballata "Sail away sweet sister", composta e cantata da Brian May, che su questo disco brilla per i suoi assoli precisi, limpidi e squillanti, come se dovesse compensare il passo meno rock del disco con la forza della sua chitarra elettrica.

Quindi alti e bassi in questo "The Game", che pur risultando complessivamente fra gli episodi meno convincenti del gruppo, dimostra proprio per questo, di fatto, il valore assoluto del quartetto.

- Prog Fox

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