venerdì 29 maggio 2020

Iron Maiden: "Brave New World" (2000)

Usciva il 29 maggio di vent'anni fa anche "Brave New World", dodicesimo disco in studio dei britannici Iron Maiden, celeberrimo a causa della reunion fra il gruppo e i membri storici Bruce Dickinson e Adrian Smith. Merita però di essere ricordato anche per l'ottimo livello delle composizioni, suonate con passione ed entusiasmo da un gruppo rivitalizzato.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/yc2zd2nq)

Quando viene annunciata la reunion degli Iron Maiden con i loro ex-membri storici Bruce Dickinson (voce) e Adrian Smith (chitarre), gli appassionati dell'heavy metal tutto esultano. Piace anche l'idea di non mandare via il chitarrista Janick Gers, rimpiazzo di Smith nel 1989, che aveva saputo toccare il cuore dei fan.

Si chiude così l'era di Blaze Bailey, cantante troppo anomalo per il suo timbro e la sua vocalità per poter essere davvero apprezzato, e questo nonostante i due album realizzati con la formazione britannica non fossero del tutto da disprezzare. Tanto più vero, questo, quanto il fatto che sin da questo "Brave New World" e anche negli album successivi, sarà chiaro il contributo delle idee di Bailey soprattutto alla scrittura del capitano della squadra, il bassista Steve Harris. Completano la formazione il carburante del gruppo, il gioviale batterista Nicko McBrain e il vice di Harris, il chitarrista Dave Murray, unico con lui a restare a bordo della Vergine di Ferro dal primo momento.

Bene: tutti contenti, tranne Blaze, tre chitarristi, formazione storica potenziata - e tanta paura. I dischi delle reunion sono sempre terreno minato, e in genere finiscono per partorire dischi raffazzonati che tutti decantano come bellissimi come una volta, ma di cui tutti si dimenticano presto.

Non è però il caso di "Brave New World": l'album, dal titolo ispirato al romanzo distopico di Aldous Huxley, è davvero sorprendente per la sua solidità e la quantità di canzoni degne dei classici del loro repertorio.

"The Wicker Man", apre l'album proprio con uno di questi pezzi, con un brano energetico ed esaltant, perfetta fusione dell'era Dickinson e dell'era Bailey. Fin dall'inizio si lascia apprezzare sia la produzione, con una batteria fluida dal suono classico e moderno allo stesso tempo, le chitarre missate in modo perfetto e il basso metallico, definitivo, di Harris. Non c'è bisogno di dire che Dickinson è in perfetta forma lungo tutto l'arco dell'album, cantato e suonato in modo impeccabile.

"The Ghost of the Navigator", per quanto un ottimo brano, è più basato sulla nostalgia per i vecchi brani epici della formazione, con rimandi a melodie e sequenze di accordi più che letterali - ma con quegli assoli certe canzoni possono anche riscriverle cento volte che ci va bene lo stesso.

Il brano che da il titolo all'album ci mostra invece gli Iron determinati a non riciclare soltanto il passato e cercare di esplorare territori, pur se non si allontanano tanto dalla loro zona di comfort, andando presto a recuperare l'amato ritmo anapestico nella sezione mid-tempo della canzone.

Le influenze di Blaze Bailey si percepiscono in un pezzo quale "Blood Brothers", che rievoca le atmosfere celticizzanti di "The Clansman" su "Virtual XI". Interessante anche "The Fallen Angel", con linee vocali davvero originali e audaci da parte di Dickinson.

A colpire sono però soprattutto le conclusive "Out of the Silent Planet" e "The thin line between love and hate", due sublimi capolavori che non hanno nulla da invidiare a quelli del passato. "Out of the Silent Planet" (ispirato all'omonimo racconto di C. S. Lewis) si apre con un meraviglioso riff poliritmico delle chitarre (degno dei King Crimson), poi il crescendo passa dal ritornello clamoroso, declamato sommessamente, per esplodere con la strofa, incalzante, epica, esaltante. "The thin line between love and hate" chiude l'album con un'altra nota di heavy metal epico, questa volta però struggente e meditabonda.

Disco perfetto, quindi? No, perché purtroppo si inaugura qui una tendenza perniciosa che ritroveremo nei dischi successivi del gruppo, ovvero quella di una certa prolissità, sia all'interno di alcune canzoni ("Dream of Mirrors", "The Nomad") sia nel loro numero (per esempio, "The Mercenary" è un po' una brutta copia di "Blood Brothers", che peraltro è il brano che lo precede!).

Tutto sommato, comunque "Brave New World" rimane un ottimo disco, talmente buono che pochi avrebbero pensato che i nostri eroi ne avessero uno così bello ancora fra le proprie corde.

Il prosieguo della loro carriera rimarrà sempre dignitoso e onesto, e dal vivo restano ancora oggi una poderosa macchina da guerra, insieme da vent'anni a partire da questo felice momento di ritrovamento e di incontro.

- Prog Fox

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