venerdì 22 maggio 2020

David Bowie: "The Man Who Sold The World" (1970)

Il 22 maggio di cinquant'anni fa venivano completate le incisioni di "The Man Who Sold the World", terzo album del cantautore inglese David Bowie: altro tassello fondamentale nella maturazione di Bowie come autore e interpete, è il disco in cui si incontrano per la prima volta David e il geniale chitarrista Mick Ronson, nonché il batterista Mick Woodmansey, che costituiranno due terzi degli Spiders from Mars che lo accompagneranno nella conquista del mondo sotto la maschera di Ziggy Stardust.



(il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/y9okn3uj)

Rientrato (o forse no?) dal viaggio spaziale di “Space Oddity”, fresco di matrimonio, e con un nuovo manipolo di musicisti talentuosi tra i quali il chitarrista Mick Ronson e il produttore/multistrumentista Tony Visconti, Bowie si chiude nella sua magione alle porte di Londra con una band nuova di zecca per incidere il seguito del buon “David Bowie II”, l’album uscito nel ’69. Al pianista Ralph Mace verrà affidato un Moog, pare appartenente a George Harrison, con il quale lavorare ai fianchi le composizioni uscite dal mese circa di sessioni di registrazione.

La presenza di Ronson e Visconti è evidente, vista la brusca transizione tra il folk rock, sperimentale ma tutto sommato posato, del disco precedente e le sonorità, le tematiche e anche il look di questo “The Man Who Sold the World”, esordio del Bowie 'glam-rock', sensuale, ambiguo e provocatorio (a partire dalla copertina, censurata in USA, che ritrae il primo caso di cross dressing del Nostro), nonché inizio della collaborazione con i due pezzi da novanta, Ronson e Visconti, nominati poche righe sopra.

Le 9 tracce per 40 minuti del disco originale sono dominate dalla chitarra di Ronson, in continua tensione tra le influenze hard rock di “All the Madmen” e “She Shook me Cold” (che paiono una versione light dei Black Sabbath), “Black Country Rock” (più tendente agli Zeppelin), i primi vagiti glam ispirati dai T Rex di “Running Gun Blues”, e vaghe reminescenze Kinks-iane nella strepitosa ballad “After All”, che fa il paio con la title track tra i brani imperdibili del Davide.

Non è tutto oro quello che luccica, però: se è vero che due sono le perle, chi scrive sente di dire che c’è poco d’altro di originale o imperdibile in “The Man Who Sold the World”, niente che non sia stato fatto meglio nel resto della carriera del duca bianco: le paranoie distopico/sataniche di “Width of a circle” “Saviour Machine” e “The Supermen” saranno esplorate con ben più personalità nella seconda metà del decennio; il debito con Bolan e con l’hard rock verrà pagato in fretta, e David Bowie svilupperà il suo stile e, soprattutto, la sua voce, qui a tratti irritante.

Ad ascoltarlo oggi, questo disco sembra implorare per una versione live delle canzoni, che ne enfatizzi il trasporto rock smorzandone la ripetitività. Bisognerebbe chiedere a qualcuno che all’epoca ha avuto la fortuna di assistere ad un concerto di Bowie durante il primo dei suoi *cambiamenti*. Per tutti gli altri, “The Man Who Sold the World” è un discreto disco di rock, con un paio di highlight di livello assoluto e diverse buone intuizioni (diversi riff, buona parte dei sintetizzatori) diluite da altre meno felici (la performance vocale, una certa prolissità delle canzoni).

In breve, sei test sierologici e mezzo su dieci, non un ascolto buttato, ma il Bowie della leggenda è solo a pochi mesi di distanza e lui è il vero protagonista della storia.

- Spartaco Ughi

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