sabato 9 maggio 2020

Captain Beefheart & His Magic Band: "Lick my decals off, baby" (1970)

Nel maggio di cinquant'anni fa veniva inciso "Lick my decals off, baby", quarto album in studio della Magic Band di Captain Beefheart, ovvero Don Van Vliet, cantante, armonicista, clarinettista e sassofonista anche noto per essere stato in più occasioni sodale di Frank Zappa. Ultimo dei quattro dischi della sua prima sequenza magica, l'album prosegue degnamente le ardite visioni degli album precedenti prima di una virata del Capitano e della sua ciurma verso lidi più tradizionali e accessibili.



(il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/ydae32mx)

Dopo tre album ognuno più iconoclasta, assurdo e imperscrutabile del precedente, l'ultimo dei quali il capolavoro assoluto "Trout Mask Replica", Don Van Vliet, alias Capitano Cuordimanzo in persona, procede verso il quarto album con la volontà di insistere su musica al di fuori delle convenzioni, pur se chiaramente inserita in un contesto rock/blues rock. È questo d'altra parte il significato del titolo "Lick my decals off, baby", 'lecca via le mie decalcomanie, baby', ovvero rimuovi tutti i marchi, i simboli di appartenenza a qualcosa di definito.

"Lick my decals off, baby" è un disco interessante, amato da critici come Lester Bangs e Robert Christgau e da un dj quale John Peel, che lo fece girare talmente tanto che Beefheart riuscì a entrarci in classifica nel Regno Unito. Però a parere di chi scrive si tratta del più debole dei quattro dischi iniziali; o forse se non il più debole il primo che non vede una evoluzione musicale e un miglioramento nel risultato finale.

L'unica vera novità del disco è la presenza delle percussioni, in particolare della marimba, del nuovo membro, il secondo batterista Arthur Tripp III, proveniente dalle Mothers di Zappa e destinato a diventare uno dei collaboratori principali di Beefheart per gran parte del decennio. A completare la formazione sono il batterista John French, il chitarrista Bill Harkleroad e il bassista Rockette Morton, tutti rimasti dall'album precedente. Hanno invece lasciato il chitarrista Jeff Cotton, che ha fondato i Mu con Merrel Fankhauser, e il clarinettista Victor Hayden, cugino di Beefheart stesso.

I risultati migliori dell'album sono quasi tutti strumentali; parliamo della fantasia folk per chitarra e basso "Peon", che fa a pezzi le idee musicali di John Fahey e Leo Kottke, parliamo dello strepitoso free jazz rock di "Japan in a dishpan", con Beefheart scatenato ai fiati, parliamo della chitarra acustica di Harkleroad in "One red rose that I mean", uno dei momenti più poetici del disco, parliamo di "The clouds are full of wine": si tratta di pezzi favolosi che valgono da soli l'ascolto dell'album. Spesso gli strumentali sono anche il momento migliore dei brani cantati, come nel caso della sezione finale di "Bellerin' Plain".

Non mancano anche canzoni nello stile di "Trout Mask Replica", che costituiscono un altro valido contributo al disco, come "Doctor Dark", uno dei più arditi esperimenti ritmici del disco, in cui impazza la frenesia controllata di John French, o come la conclusiva "Flash Gordon's Ape", con Van Vliet impegnato a seminare il caos con sovrapposizioni di fiati in puro stile free jazz. La sequenza frastornaante con cui si apre il pezzo è uno dei momenti più alti (ed esilaranti) del disco, a cui fa da contrapposizione il suggestivo assolo di marimba di Tripp incoerentemente gettato a metà della canzone.

Non tutto però in questo LP funziona: quello che sorprende è che sono i momenti più blues del disco a deludere, incapaci sia di colpire per dissonanza come in "Trout Mask Replica" (1969) che di gettarsi sul versante psichedelico come in "Safe as milk" (1967) o "Strictly Personal" (1968). "I love you, you big dummy" spreca una introduzione da paura di urla licantrope e armonica impazzita per una canzone tutto sommato ordinaria, mentre "Woe-is-uh-Me-Bop" e "The Buggy Boogie Woogie" appaiono proprio noiose, incredibile dictu quando si parla di Beefheart, e cosa mai avvenuta nei tre dischi precedenti.

Questi brani incerti e minori sono purtroppo un cupo segnale dei tempi che verranno: a partire dal successivo "Clear Spot" (1971) sarà evidente come l'ispirazione del Capitano sia offuscata, e lo rimarrà per diverso tempo, almeno fino al 1975, quando l'amico-nemico Frank Zappa lo tirerà fuori dalla palude scegliendo di averlo al suo fianco sull'album "Bongo Fury", esperienza che donerà nuova linfa creativa a Don Van Vliet.

- Prog Fox

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