lunedì 30 marzo 2020

Miles Davis: "Bitches Brew" (1970)

Il 30 marzo di cinquant'anni fa esce uno dei dischi più importanti del secondo Novecento, ovvero "Bitches Brew" del trombettista e compositore afroamericano Miles Davis. Per l'ennesima volta, Miles rivoluziona il suono del jazz confezionando un doppio album che diventa fertile radice dalla quale germoglierà ogni ramo futuro di jazz rock, di fusion e anche di tanto rock progressivo.



(il disco completo (con una traccia bonus) si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/wp98emg)


Quando incide "Bitches Brew", Miles Davis è uno dei più importanti e popolari autori di musica jazz del Novecento. Durante quegli anni sessanta in cui progressivamente jazz e rock hanno reso il formato dell'album quello privilegiato per la fruizione critica e artistica della musica, la pubblicazione di un nuovo album del trombettista di St. Louis, Illinois è ormai un evento atteso con trepidazione.

"In a silent way", il suo disco del 1969, aveva sollevato consensi e critiche in pari misura a causa dell'avvicinarsi a una musica d'atmosfera che ripescava anche idee classiche, segno della sempre maggiore influenza sul suo pensiero musicale del produttore Teo Macero, e per l'uso di strumenti elettrici, ancora abbastanza poco diffuso fra i grandi maestri del jazz.

Con "Bitches Brew", Miles accelera le innovazioni e, soprattutto, metabolizza dopo una lunga meditazione sia il rock moderno sia i concetti fondamentali del free jazz, che aveva disprezzato per anni (forse per il mero fatto di non averlo inventato lui). Cinicamente, afferma di avere applicato le proprie conoscenze teoriche musicali alle idee degli incompetenti musicisti rock; ma sottintende, con l'uso di strutture libere e indicazioni minimali per guidare le improvvisazioni dei compagni, di avere allo stesso tempo preso dalle mani degli ottusi musicisti free gli aspetti migliori del free jazz, troppo spesso fine a se stesso e destinato più a produrre musica priva di senso che non musica libera.

Al fianco di Miles, il geniale produttore Teo Macero e un parterre de roi della musica jazz quali il sassofonista Wayne Shorter e il tastierista Joe Zawinul (futuri Weather Report), il clarinettista Bennie Maupin, i tastieristi Chick Corea e Larry Young, il chitarrista John McLaughlin, il bassista Harvey Brooks, il contrabbassista Dave Holland, i batteristi Lenny White, Jack DeJohnette e Don Alias, il percussionista Juma 'Santos' Riley.

Il modo di procedere di Miles e Macero è il seguente: messa insieme, tra il 19 e il 21 agosto del 1969, una valanga di musicisti di enorme talento, si prendono un numero minimo di frasi musicali, notazioni, sequenze di accordi e di cambi di accordi, si seguono indicazioni non musicali come i sentimenti da evocare, e poi si improvvisa, secondo la direzione orchestrale di Miles. Infine, Miles e Macero passano mesi a selezionare, ritagliare e rimontare tutto ciò che è stato inciso per farne composizioni che hanno solo una parziale relazione con le improvvisazioni originali. Così, oltre a mescolare rock, funk e jazz in qualcosa di totalmente inedito, Miles e Macero si fanno influenzare anche dalle avanguardie classiche e rock che impiegano nastri e usano lo studio di registrazione come uno strumento vero e proprio.

Il risultato è un disco immenso, gargantuesco, potentissimo, talmente livido e plumbeo che Miles sceglie di lasciare temporaneamente da parte le scelte più cool e languide della sua tromba per un suono aggressivo e imperniato spesso su fiammate delle note più alte e stridule del suo strumento.

La lettura del rock e del funk da parte di questo superbo jazzista è ovviamente sui generis, e a parecchi non piacerà: né ad amici jazzisti che ne criticheranno quella che per loro è una svolta commerciale, né a musicisti rock quali Donald Fagen, che ritiene non avesse colto appieno lo spirito funk di Sly Stone e James Brown, che pure Miles aveva indicato come ispiratori. In realtà, l'uso di tre o quattro percussionisti alla volta e di due bassisti (un contrabbassista come Dave Holland e un bassista elettrico come il sessionman rock di lusso Harvey Brooks) è semplicemente l'applicazione del titanismo rarefatto e atmosferico dell'artista afroamericano al funk più viscerale di Brown e Stone.

Tra i brani del disco, "Miles runs the voodoo down" è quello più chiaramente ispirato all'opera di Jimi Hendrix, con un McLaughlin in prima fila; "Sanctuary", che chiude il disco, è la ballata struggente e romantica, composta dal sassofonista Wayne Shorter e maggiormente legata alle opere precedenti di Davis. "Pharaoh's Dance", scritta da Joe Zawinul, qui al piano elettrico, apre il primo LP gettandoci già profondamente nella nuova forma musicale sviluppata da Miles, che sceglie anche di ripescare influenze latine nella notevolissima "Spanish Key".

Non è difficile cogliere fra i suoi antecedenti le opere di Jimi Hendrix e quelle del jazz rock di gruppi già influenzati dal Miles precedente, come i britannici Nucleus e Colosseum, o come i lavori precedenti di Tony Williams, John McLaughlin (non a caso chiamato qui come chitarrista) e Jack Bruce (sì, quello dei Cream). Ma ognuno di coloro che lavora a questo disco, e ognuno di coloro che stava sperimentando in questa direzione nello stesso tempo, viene folgorato dal modo di Miles di cristallizzare in un diamante puro tutte le idee di quel momento, in modo analogo a quanto fatto da Jimi Hendrix con tutti i chitarristi blues rock e gli sperimentatori psichedelici che lo avevano preceduto e influenzato. Oltre agli artisti sopra citati, innumerevoli altri nel jazz e nel rock saranno ispirati da "Bitches Brew", dai Soft Machine di "Third" ai King Crimson di "Lark's tongues in aspic", dal chitarrista Terje Rypdal ai Santana di "Caravanserai".

- Prog Fox

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