giovedì 19 marzo 2020

Depeche Mode: "Violator" (1990)

Trent'anni fa oggi usciva uno degli ultimi grandi album del synth pop ottantiano: "Violator" dei Depeche Mode, maestri assoluti del genere, paladini della sua versione più oscura e disturbante.



(Il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/sek8mdl)


La fine di ogni decennio è il momento in cui un’intera generazione di artisti è costretta a fare i conti: sul passato e sul futuro, di ciò che è stato detto e ciò che resta da dire, su quanto ci si sta sul cazzo dopo un certo numero di anni passati in tournée assieme.

La fine dei ’60 iniziò con la summer of love, e i settanta si chiusero con l’esplosione di punk New Wave, mentre gli ’80 finirono con… niente. L’epopea synthpop si trascinava stancamente, quasi tutte le variazioni del rock emerse dal Metal e dalla New Wave cominciavano a mostrare segni di decrepitudine sotto il glitter e le parrucche fluo, ma la prossima rivoluzione (per semplicità riassunta con la parola “Grunge”) doveva ancora emergere dal mucchio, anche se molte delle band che ne saranno protagoniste erano già in attività.

In questa terra di nessuno, in cui la trance techno e tutta la sottocultura che l’accompagna è forse la cosa che più si avvicina ad una rivoluzione culturale, si aggira il dinamico quartetto dei Depeche Mode. La band contribuì in maniera decisiva all’immaginario e al suono del synthpop, e si arrampicò lentamente ma inesorabilmente fino al vertice dello stardom, la cui conquista venne certificata dall’oceanico concerto di Pasadena dell’88, immortalato nel live “101”. Negli stessi anni in cui i Mode raggiungevano lo status di superstar, le altre band della corrente sintetica si scioglievano senza troppi sussulti, mentre l’industrial prendeva piede e il messianico “Pretty Hate Machine” dei Nine Inch Nails appariva all’orizzonte.

La sfida del nuovo decennio non richiede a Gahan, Gore, Fletcher e Wilder troppi cambiamenti: già da anni le frivolezze pop degli esordi avevano lasciato spazio ad una svolta dark dalle atmosfere cupe, all'esplorazione di temi più introspettivi per mezzo di suoni più sofisticati. “Violator” non fa che proseguire su questa strada, estremizzando la ricerca sonora (ma anche ritmica, grazie a drum machine sempre più flessibili) del tastierista/tecnico del suono Alan Wilder in direzioni inesplorate; Gore e Gahan, dal canto loro, approfondiscono la loro simbiosi di autore/interprete meravigliosamente sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda.

Il risultato è questo “Violator”, che è allo stesso tempo: uno dei migliori album di pop-rock della storia, fuori dal tempo e al di là dei generi; il canto del cigno del suo genere di appartenenza, che qui trascende i suoi limiti e diviene nutrimento per l’elettronica degli anni ’90; il disco che sancisce il primato dei Depeche Mode nella scena che qui hanno ucciso, e il loro status di band di primissimo livello che li porterà a scrivere almeno un altro capolavoro (e secchiate di canzoni eccellenti) negli anni e decenni a seguire; il contenitore di due classici della musica popolare del secolo scorso come “Enjoy the Silence” e “Personal Jesus”.

Le canzoni eccezionali non si limitano alle due succitate: gli altri singoli “World in my eyes” e “Policy of truth” sono singoli che in qualsiasi altra situazione definirebbero una carriera, mentre “Halo”, “Waiting for the night” e “Clean” sono ancora oggi esempi quasi impareggiabili di sperimentazioni elettroniche nella forma canzone.

“Sweetest perfection” e “Blue dress” sono leggermente meno convincenti, più per la loro forma più tradizionalmente ’80 che non per il songwriting, più che solido, e sono al peggio due ottimi filler, al meglio due canzoni non rivoluzionarie quanto il disco che le contiene.

Ma la cosa forse più pressante da dire su “Violator” è che si tratta di un caso, raro, di disco leggendario che forse meriterebbe ancora più venerazione e devozione di quelle che già riceve; sicuramente meriterebbe un ascolto da parte di chiunque, e tu, lettore, non fai eccezione.

- Spartaco Ughi

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