sabato 29 febbraio 2020

Smashing Pumpkins: "Machina/The Machines of God" (2000)

Usciva il 29 febbraio di vent'anni fa "Machina/The Machines of God", quarto album in studio dei The Smashing Pumpkins di Billy Corgan. Il disco è il primo mezzo passo falso del gruppo, tra momenti più e meno riusciti, ma tradisce un calo di ispirazione del suo leader, che forse appesantisce l'album con un concept eccessivo soprattutto dovendo fare i conti con le defezioni interne alla formazione.



(disco completo qui: https://tinyurl.com/qm3dvwf)


Ci si era posti, dopo l'incommensurabile ed elefantiaca vertigine di tremori-urla-glamour contenuta in "Mellon Collie", la fatidica domanda: 'e adesso?'

La risposta William Patrick Corgan l'aveva data con stile e classe ineffabili, rimasticando defezioni apparentemente sanguinose e trovando una nuova chiave di lettura alla poetica da innestare sulla sua propaggine all'ego, gli 'Smashing Pumpkins': "Adore" si era rivelato un perfetto capolavoro in minore, con una estetica gotica in bianco e nero quanto mai indicata a rimpiazzare il precedente blu barocco.

Il percorso aveva un filo logico e consequenziale innegabile, dando chiare indicazioni su un percorso potenzialmente fecondo, verso un approccio certo più crepuscolare, meno roboante, ma anche più adulto e strutturato. Una uscita, insomma, dal vicolo pericolosamente cieco in cui un'opera magniloquente (e sostanzialmente perfetta, lo si dica senza remore) come il doppio disco del 1995 avrebbe potuto, per paradosso e per eccesso di attese, infilare i nostri.

Ma, si sa, la logica e la pura consequenzialità non fanno parte della scenografia del rock e solo nelle sfere celesti è forse chiaro come funzioni la testa e la gestione del talento nelle persone baciate dalla grazia.

"Machina/The Machines of God" arriva nel 2000 in un contesto di ottimismo, con gli "Smashing Pumpkins" ancora punto focale dell'interesse e dei palpiti dei cuori rock ma, fin da subito, si capisce che qualcosa non ammalia come di consueto. No, non sono le cervellotiche (e ormai consuete) sovrastrutture che Corgan carica sull'album (il concept album, la storia di Glass, i Ghost Children, sì sì Billy, interessantissimo, certo).

Lo si percepisce già con il singolo, "The Everlasting Gaze": non si può di certo definire un brano sgradevole, ma ascoltandolo appare subito la sensazione di una maniera applicata, di una vena inaridita e di una ispirazione in qualche modo normalizzata.

"Raindrops & Sunshowers" non fa che confermare i timori: il mix pop può funzionare benissimo quando si è in grado di scrivere "1979", ma i miracoli stentano a ripetersi.

La combo "Stand Inside Your Love"/"I Of The Morning" fa - per qualche minuto - riprendere i battiti del cuore. Il secondo pezzo, soprattutto, è davvero potente e riuscito, offre un Corgan che ruggisce stridulo come nei suoi migliori momenti.

Caliamo invece pietosi veli su "The Sacred And The Profane", "The Imploding Voice", "The Crying Tree of Mercury", "Blue Sky": sono pezzi rilevanti solo perchè aprono uno spiraglio chiaro sulla crisi compositiva di Billy e sulle vie che sta cercando di percorrere per sfuggirvi.

"Try Try Try" forse si salva, ma il dubbio permane: quando si è già scritta "Perfect" perché rifarla e perché - soprattutto - rifarla prendendone tutti e soli i difetti? "Heavy Metal Machine" è il primo punto di non ritorno: è chiara l'idea di fondo ma è altrettanto chiaro l'arenarsi della realizzazione, incastrata su un riff pacchiano e plasticoso.

"Glass and the Ghost Children" è l'apoteosi delle velleità frustrate, un torto ingeneroso che la band si auto impone: altro punto di non ritorno, vorrebbe essere una epica citazione in bilico tra dark-wave e prog, forse anche un omaggio ai Joy Division, ma che si presenta come una stanca e prevedibile transizione nel disco.

Forse è proprio quando Billy riflette meno che il motore gira al meglio: "Wound" e "With Every Light" sono adorabili, sincere e raggiungono perfettamente il centro dell'Eden, vanamente cantato in precedenza. Non resta che il tempo di arrabbiarsi una ultima volta, dato che la conclusiva "Age of Innocence", inno irresistibile, con la sua immediatezza e tenerezza fa capire quanto inchiostro buono possa esserci ancora nella penna di Corgan e che peccato enorme sia quello di non avere saputo (o potuto) dargli migliore pergamena. "Machina" è un punto finale, un paragrafo chiuso: una dichiarazione di normalità da parte di chi era straordinario, una (consapevole?) fuoriuscita dall'occhio del ciclone per approdare su un più comodo argine fatto di auto-citazioni e rassicuranti meccanismi. A noi non resta che attendere che qualche perla, di sfuggita, ci raggiunga e ci emozioni, ringraziando Billy e i suoi per il fuoco indimenticabile e malinconico che - ad ogni modo - li ha accesi e che ci ha così a lungo scaldato. - il Compagno Folagra

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