sabato 22 febbraio 2020

Orchestral Manoeuvres in the Dark: "Orchestral Manoeuvres in the Dark" (1980)

Il 22 febbraio di quarant'anni fa debuttavano su LP - eponimo - gli inglesi Orchestral Manoeuvres in the Dark, tra le band simbolo del synth pop dei primi anni ottanta.



Il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/sdjb7wx


Lo sai qual è il problema, o lettore? Che mi è davvero difficile contenere l’enfasi su quanto io ami questo disco, oggi, nel suo quarantennale, dal momento che è solo da pochi giorni che lo sto ascoltando (e cantando a squarciagola) con una morbosa assuefazione, alienandomi le simpatie dei pochi colleghi che ancora non hanno cominciato a pensare che io abbia contratto una forma particolarmente virulenta di weird.

Succede così, a chi scrive, quando costui scopre un gruppo nuovo e ci si appassiona: diventa maniacale e perde contatto con la prospettiva più ampia, oltre che perdere le distanze dialettico-retorico-epistemologiche da me, che sono a mia volta quello che scrive, ma, per le ragioni di genere letterario insegnateci alle medie/superiori, dovrei essere da lui separato.

Un grande arzigogolare per dire che un disco di quarant’anni fa è piuttosto bello, in soldoni, che però spero vi renda più partecipi, più investiti, più vogliosi insomma, e affamati di dare al primo disco degli OMD una chance, anche se non conoscevate il nome della band e non sapreste collegarli a nessuna canzone che conoscete già (e io sono sicuro che tutti voi almeno una canzone degli OMD la conoscete già).

E dovreste farlo, a suo avviso (cioè di chi scrive, che poi sono io), perché se esiste un gruppo di synth music dal valore melodico cristallino, questo è il duo composto da Andy McCluskey e Paul Humphreys, un duo di ragazzini dal pochissimo carisma e dal talento eccelso, tipo due Alex Turner diciottenni ma con la manopola del livello di nerd bloccata al massimo. Talmente innamorati del loro lavoro da usare i soldi del primo contratto per costruirsi uno studio di registrazione in casa (una forma di indie-pendenza che noi nativi digitali smanettoni di GarageBand nel vanto tentativo di emulare Niccolò Contessa diamo per scontata, ma allora era un lusso a 4/5 zeri), utilizzeranno il nuovo giocattolo per incidere canzoni che, senza voler usare iperboli eccessive, letteralmente scolpiscono nella pietra tutti gli stilemi del synthpop che poi verranno fraintesi da Bertoncelli (non lo so, a dire il vero, però chiamò gli Ultravox “oro finto” e tanto mi basta), dando un contributo esiziale alla fondazione del genere per antonomasia del decennio e un’ulteriore ragione per ascoltare l’Avvelenata di Guccini.

Da un lato “Mysteriality”, “Electricity” (migliore canzone del lotto, assieme alla chiusa del disco) e “The Messerschmitt Twins” costituiscono un trittico di canzoni al limite tra lo sperimentalismo di Eno, la vena “tecnologica” del Krautrock (termine ombrello in cui includeremo, per praticità, anche i Kraftwerk), attorno a cui i brani meno elettrizzanti (“Messages”, “Julia’s song”) possono brillare di luce riflessa, mentre “Almost” si accontenta di sembrare una canzone dei Depeche Mode (una canzone dei Depeche Mode ben precisa, vale la pena specificare: “The things you said” da “Music for the masses”, 1987), “Red Frame/White light” è un buon singolo, “Dancing”è tutto l’Eno che poi verrà travasato nei successivi dischi dei Tuxedomoon.

Chiude l’album la filosofeggiante “Pretending to see the future”, che ironicamente è un inno anti-accelerazionalista in cui il duo si angustia per le incertezze che il loro mondo in costante, esplosivo, irresistibile cambiamento avrebbe certamente portato.

Sarebbe ironico, se stessimo parlando “solo” dei padri del genere più “futurista” di tutti, e non di due ragazzini che invocavano l’uso di energia solare e sentivano, forse profeticamente, l’arrivo di una singolarità nella storia dell’umanità, prevenendoci dal passato per fare sì che abbiamo una possibilità di salvarci.

Spero, o lettore, che tu ora capisca il mio attuale problema con questo disco

- Spartaco Ughi

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