sabato 18 gennaio 2020

John Foxx: "Metamatic" (1980)

Il 18 gennaio di quarant'anni fa usciva "Metamatic", primo disco di John Foxx dopo la sua fuoriuscita dagli Ultravox che pure aveva contribuito a fondare. L'album era uno dei primi esempi di synth pop, volutamente alienante e sperimentale, dominato dall'algida voce del cantante inglese.



(il disco completo si può ascoltare qui: https://tinyurl.com/wq24m5j)


Quando John Foxx lasciò gli Ultravox!, nel 1979, la band cui aveva prestato la voce era un portabandiera della New Wave britannica e non solo, nonché forse la prima a rilasciare una canzone identificabile esattamente con gli stilemi della musica synth (la “Dislocation” contenuta nel capolavoro “Systems of Romance”). I motivi della scissione erano ovviamente da ricercare negli scazzi tra Bill Currie, tastierista-violinista con ambizioni epiche e massimaliste, e le tendenze minimal di Foxx, emulo del Duca Bianco e desideroso di portare la sua voce in territori sonori più astratti. Volendo fare un paragone pittorico, agli affreschi magniloquenti del seguente album degli Ultravox, “Vienna”, Foxx oppose dei bozzetti di carboncino e chine, toni di grigio a definire chiaroscuri fascinosi e disturbanti, a tratteggiare la modernità conturbante dell’Europa alle porte del decennio.

Con Bowie da un lato e i Kraftwerk dall’altro, le canzoni di “Metamatic” sono delle miniature futuriste ed alienate, con la voce algida del nostro a muoversi, a piedi o a bordo di una vettura, in scorci di paesaggio fumosi: tra strade deserte (“No one’s driving”), sottopassaggi bui (“Underpass”), piazze affollate di personaggi senza volto (“Plaza”) e spiagge in bianco e nero (“Tidal Wave”), i sintetizzatori e le drum machine gelidi e taglienti creano la scenografia surreale che Foxx desidera per le proprie performance. Un simile paesaggio monocromatico non può che portare distorsioni profonde in chi le abita e nelle sue percezioni(“A new kind of man”, ma anche “He’s a liquid”, “A blurred girl”, “030”), con l’unica concessione al colore, i cieli rossi di “Touch and Go”, relegata al finale del disco.
Se è vero che quest’album era pura avanguardia nel momento in cui uscì, non si può certo dire che sia invecchiato bene: i suoni datati e le strutture minimaliste danno a “Metamatic” l’aria del prototipo in fase embrionale, piuttosto che dell’origine della specie del synth-pop più evoluto degli anni seguenti, e richiede ascolti successivi perché le melodie sbilenche, i ritmi metronomici e la voce distaccata rivelino tutto il proprio gelido fascino. Un disco certamente seminale, che gli appassionati di musica elettronica dovrebbero ascoltare e forse persino studiare, ma che difficilmente vi farà innamorare del genere se non siete già adepti.

- Spartaco Ughi

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