sabato 30 novembre 2019

Control Denied: "The Fragile Art of Existence" (1999)

Il 30 novembre di venti anni fa usciva "The Fragile Art of Existence", unico album dei Control Denied (Official) e testamento musicale del superbo chitarrista e compositore americano Chuck Schuldiner (Official).
L'album, allo stesso tempo evoluzione e devoluzione del death metal del suo precedente progetto Death (Official) in senso progressive e heavy, sarebbe stato l'ultimo per Schuldiner, scomparso il 13 dicembre del 2001 per una gravissima neoplasia.

(il disco completo si può ascoltare qui --> https://tinyurl.com/tco63cw)

Giusto poco prima di archiviare il millennio (ma il millennio non finiva il 31 dicembre 2000? boh NdR), vede la luce "The Fragile Art of Existence", primo e unico album prodotto dai Control Denied. Album assolutamente fondamentale, dal valore inestimabile, come per le opere d’arte, gioca un ruolo centrale la combinazione di due fattori determinanti: è un pezzo unico della 'collezione', ed è l’ultimo lavoro di un grandissimo 'artista' che morì da lì a poco (due anni). Dietro al monicker Control Denied, difatti, si cela Chuck Schuldiner, mastermind dei Death, compositore assolutamente geniale, originale, egocentrico, in assoluto uno dei musicisti più significativi della scena metal degli anni novanta.

Già dai tempi di "Symbolic" abbiamo potuto appurare come qualcosa stava mutando nel gusto compositivo di Schuldiner, cambiamenti che si palesarono con il seguente capolavoro indiscusso "The Sound of Perseverance", lavoro che secondo molti addetti ai lavori rappresentò il suo apice espressivo.

Ma per Evil Chuck evidentemente non era abbastanza. Il progetto Control Denied venne messo in piedi in seguito al tour di "Symbolic", e la gestazione di "The Fragile Art of Existence" durò tre anni, correndo su binari paralleli a quelli intrapresi da "The Sound of Perseverance".

Per la realizzazione del proprio nuovo progetto, Schuldiner si avvalse della medesima lineup, formata da Shannon Hamm come partner alle sei corde, il superlativo Richard Christy alla batteria e Scott Clandenin al basso, rimpiazzato dal veterano Steve DiGiorgio (ex Death anche lui, naturalmente) in concomitanza con l’inizio delle sessioni di registrazione.

Del death metal primordiale dei primi tre album dei Death si è persa qualsiasi traccia, quello che Schuldiner ora propone parte da una solida base di heavy classico di retaggio puramente americano (su tutti, Riot) irrobustito da ritmiche thrash/speed power (alla maniera degli Iced Earth, per intenderci), rifinito con tinteggiature progressive (sviluppando il discorso intrapreso dai primi, gelidi e introspettivi Queensryche, quelli del periodo pre-"Operation: Mindcrime").

Schuldiner mira soprattutto a conferire alle canzoni un forte impatto emotivo con tematiche e testi estremamente curati e profondi, enfatizzati dalla sua struggente e decadente poesia generata dalle sei corde della propria fedelissima B.C. Rich.

Per farla breve, pur seguendo una traiettoria differente, Schuldiner puntava a innovare un ibrido di metal autoriale, evoluto, tecnico e spirituale alla Nevermore. Con in aggiunta un’attitudine prog maggiormente spiccata. Non a caso, la prima scelta del cantante ricadde su Warrel Dane, il quale dovette declinare l’offerta per via dell’intenso periodo di attività dei suoi Nevermore (all’epoca al livello massimo della propria vena creativa, grazie alla quale produssero nel giro di un anno e mezzo prima "Dreaming Neon Black" e successivamente "Dead Heart in a Dead World").

Schuldiner dovette quindi ripiegare sullo sconosciuto Tim Aymar, attivo con la band di power metal Pharaoh (gruppo di cui si persero le tracce dopo alcuni mediocri lavori). Proprio la scelta del lead singer fu la mossa più criticata, spesso ci si è domandato se Aymar fosse davvero all’altezza di ricoprire quel ruolo: non che si tratti di un dilettante, sia chiaro, il problema principale fu la mancanza di controllo del registro vocale del singer che spesso mal si sposava con l’accompagnamento strumentale. Non è raro infatti che Aymar perda contatto con il mood delle composizioni, lanciandosi in spericolate peripezie vocali con scream inadeguati e acuti fastidiosi, e spesso pare scimmiottare malamente il Warrel Dane più istrionico e delirante (con la grossa differenza che Dane, nell’omonimo dei Nevermore e in "The Politics of Ecstasy", era perfettamente integrato con il mood concettuale delle tematiche affrontate). La responsabilità va ovviamente indirizzata a pari merito verso Schuldiner, il quale nelle vesti di regista non è stato in grado di sfruttare ciò che era più consono al range e alle corde vocali di Aymar.

Nel complesso, la sua performance, per quanto altalenante, risulta soddisfacente, quelle che sono le sue capacità (seppure con qualche sbavatura evitabile) emergono specialmente nelle fantastiche "Expect the Unexpected" e "What If…?" (quelli che prenderemo come pezzi simbolo del rinnovato percorso di Schuldiner e soci), composizioni rocciose e ottimamente strutturate dove tutti i membri danno sfoggio delle proprie doti strumentali davvero notevoli, dotando i pezzi pure di una gran grinta e un groove squisitamente thrashy, senza mai perdere il senso della melodia.

"When the Link Become Missing" è un’altra perla assoluta caratterizata da un break centrale semiacustico emotivamente molto inteso, in cui Aymar segnala di trovarsi maggiormente a proprio agio con un cantato espressivo e pacato, a dimostrazione che le potenzialità c’erano. Grandissima interprete, a livelli esagerati, è la chitarra solista di Evil Chuck, capace di sprigionare assoli stridenti carichi di passione emotiva e sofferente.

Il climax drammatico appartenente all’indole dei Control Denied raggiunge il livello massimo nella conclusiva title track dalla durata di quasi dieci minuti. Il premio miglior attore protagonista va naturalmente a Schuldiner e alle note che è capace di sprigionare.

Difficile trovare punti deboli in un album epocale, quasi perfetto, composto da otto composizioni superlative concentrate in cinquanta minuti di musica. Impeccabile anche la produzione a cura del fedele Jim Morris presso i suoi Morrisound floridiani. E fantastica è anche la copertina, con illustrazioni e booklet ad opera di Travis Smith (fra cui spicca una personale rivisitazione della Creazione di Adamo di Michelangelo nell’ultima pagina del libretto, dove la mano si lascia cadere priva di forze, stanca di attendere l’Eterno ).

Sul finire delle sessioni di registrazioni, a Schuldiner fu diagnosticata una neoplasia al tronco encefalico, che iniziò subito a contrastare con una serie di terapie. Inizialmente le cure diedero esito positivo, durante il periodo di riabilitazione l’anno seguente Chuck cominciò a lavorare a un secondo album intitolato "When Man and Machine Collide". Il suo progetto purtroppo non vide mai la luce: le sue condizioni di salute peggiorarono, e Schuldiner morì il 13 dicembre del 2001, lasciando un vuoto enorme nella scena metal.

Nel corso degli anni si susseguirono voci riguardanti il rilascio del materiale inedito ancora incompleto, ma fra polemiche varie e dispute legali non se ne fece mai nulla. E probabilmente è meglio così. "The Fragile Art of Existence" resta il suo ultimo vero testamento musicale. Resta il rimpianto ulteriore di non aver fatto in tempo a vederlo eseguito in sede live e di avere visto tarpata anzitempo una continua, straordinaria evoluzione artistica.

- Supergiovane

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