domenica 20 ottobre 2019

Nine Inch Nails: "Pretty Hate Machine" (1989)

Il 20 ottobre di trent'anni fa faceva il suo debutto discografico il progetto Nine Inch Nails del grandissimo Trent Raznor con "Pretty Hate Machine". Un debutto ancora acerbo, tra synth pop, hard rock e industrial, che però lasciava presagire i capolavori che presto avrebbero sfornato.



(iisco completo si può trovare qui --> https://tinyurl.com/y2tkptza)




Voi lo sapete, o adorati lettori, che su queste pagine virtuali abbiamo l’ambizione di mettere ordine nel caotico albero genealogico del rock (e dintorni): ci dilunghiamo e ci dilarghiamo su influenze ed eredità, premonizioni e profezie, anticipi e ritardi, e non lo facciamo tanto perché così fan tutti (è la dura legge della critica, pare), ma perché siamo proprio incuriositi, forse ossessionati, dalla storia del Rock. E se le mappe, i diagrammi di flusso, a volte divergono profondamente tra un recensore e l’altro, a volte ci troviamo quasi sorpresi dalla collocazione storica di un album.

Caso in questione, l’esordio su lungo di Trent Reznor, noto ai più col nome Nine Inch Nails: “Pretty Hate Machine”. Chi scrive, di industrial, ha ascoltato giusto i Throbbing Gristle e conosce a malapena i Ministry e gli Skinny Puppy, quindi non sarebbe in grado di riconoscerne l’ascendente su questo disco; d’altro canto, forse grazie a questo bias, rileva con piena cognizione, e ampi gesti di stupore con la parte superiore del corpo, l’enorme impatto che artisti come i Depeche Mode hanno avuto sul giovane Reznor, enfant prodige del pianoforte presto sposato alla causa dell’elettronica.

La ragione di ciò va, in parte, cercata nella presenza vecchi compagni di merende dei Mode come Flood, che lo accompagnano alla produzione, ma è il songwriting stesso ad essere sfacciatamente debitore alla banda di Gahan e Gore in più di una manciata di brani (“Sin”, per dire, potrebbe essere una bonus track di “Black Celebration” passata attraverso un distorsore fuzz un paio di cinque volte; lo stesso si può dire di “Terrible Lie”).

Ma poi, fermi tutti!, “Sanctified” parte proprio come “Halo” dei DM, uscita l’anno dopo, e “Down in it” ha un beat che sarà poi ripreso in “Songs of Faith”; e i sintetizzatori sono sì più distorti ma anche parecchio più grezzi, la personalità dell’artista non si è ancora estesa anche al fine tuning dei suoni.

Cosa dire di “Something I can never have”, che è l’antipasto succulento di un brano leggendario come “Hurt”? Il suo status di prototipo la rende superiore, poiché primogenita, o una nota a margine nella storia maggiore della band?

La seconda metà del disco, ad eccezione di “Sin”, si muove su coordinate più derivative, con il synth-rock sporchissimo di "Kinda I Want To" e "That's What I Get”, la Prince-iana “The Only Time” e una sorta di omaggio alla “High on the heels of love” dei Throbbing Gristle.

Le melodie che renderanno Reznor un culto degli anni ’90, la sua forza espressiva, così disperatamente sincera, e la sua attitudine rock sono già ben presenti in “Pretty Hate Machine”, un disco che è un seme fuori dal tempo, le fondamenta su cui si basa così tanto del rock anni ’90 e che allo stesso tempo, a tratti, suona così quintessenzialmente eighties che potrebbe essere uscito nel 1981 quasi passando inosservato.

Un disco da ascoltare nonostante le sue evidenti imperfezioni, prologo di un’avventura prolifica e fondamentale, esempio fulgido di autenticità dell’artista che traspira nell’opera.

- Spartaco Ughi

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