giovedì 10 ottobre 2019

Kinks: "Arthur - or the decline and fall of the British Empire" (1969)

Il 10 ottobre di cinquant'anni fa veniva pubblicato "Arthur - or the decline and fall of the British Empire", capolavoro della carriera dei The Kinks, una delle maggiori rockband britanniche degli anni sessanta.



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Il 1969 è stato un anno che ha visto molti dei gruppi inglesi del decennio raggiungere il proprio picco creativo. Oltre agli Who di "Tommy" e, per molti, i Beatles di "Abbey Road", vanno contati certamente anche i Kinks con "Victoria - or the Decline and Fall of the British Empire", che è probabilmente la migliore opera della loro lunga carriera.

"Arthur" prosegue nel solco di "The Village Green Preservation Society", che focalizzava l'attenzione del gruppo sui cambiamenti sopravvenuti nel Regno Unito nel secondo dopoguerra e nella vita suburbana degli anni sessanta, soprattutto fra le realtà piccolo borghesi e conservatrici e la working class che votava più o meno confusamente laburista. Questa volta lo sguardo di Ray Davies e compari è ancora più a fuoco, ancora più ficcante e preciso, ed è sorretto da una musica complessivamente ancora migliore. La natura concettuale del disco significa che esso è composto tutto dal leader, cantante e seconda chitarra Ray Davies, qui anche al clavicembalo e al pianoforte. Al suo fianco il fratello Dave Davies alla chitarra solista e il tempestoso batterista Mick Avory, ai quali si aggiunge da questo disco il nuovo bassista John Dalton. Fiati e archi sono arrangiati e diretti da Lew Warburton.

Torniamo brevemente alla storia: Arthur Morgan è un pensionato inglese, sposato con Rose, a cui è morto il fratello Eddie nella seconda guerra mondiale. Anche un suo figlio, Eddie, chiamato come lo zio, è morto - nella guerra di Corea. Inoltre, Arthur è preoccupato dalla fine dell'impero coloniale britannico e dalle prospettive economiche tutt'altro che positive, tanto che l'altro suo figlio, Derek, si sta trasferendo in Australia assieme alla moglie Liz e ai figli Terry e Marilyn. Arthur è un tipo semplice che crede in valori semplici come l'onestà e l'educazione, ma si sente messo da parte da un mondo che si sta evolvendo in un senso che lo confonde e non gli piace. E la storia è tutta qui, e racconta questi pochi dati biografici assieme alle impressioni su di essi di Arthur e dei suoi familiari.

Il personaggio di Derek Morgan è ispirato ad Arthur Anning, marito della sorella maggiore dei Davies, con la quale si trasferì proprio in Australia; Arthur Anning, il cui fratello era davvero morto nella Seconda Guerra Mondiale. Ray Davies raccontò che il cognato aveva capito subito di essere stato l'ispiratore sia del personaggio di Derek Morgan sia del nome del protagonista dell'album. Ray si era scusato e gli aveva detto di sentirsi in colpa per averlo usato come ispirazione, ma il cognato gli aveva detto di non preoccuparsi, e che si era invece sentito onorato di questa scelta.

"Victoria" apre il disco con un capolavoro nel capolavoro, un rock che unisce incredibile melodismo a un suono garage rock, con una batteria impetuosa, chitarre ruggenti e le voci stentoree della band che non si risparmiano. Segue un altro pezzo clamoroso, "Yes Sir, No Sir", che passa dal folk blues al vaudeville al folk pop e ritorno nel giro di quattro minuti scarsi. Il pezzo più commovente dell'album, la struggente "Some Mother's Son", è uno straziante canto di dolore per i morti inglesi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, e più in generale contro ogni guerra ('Some mother's son lies in a field, but in his mother's eyes he looks the same as on the day he went away. They put his picture on the wall, they put flowers in the picture frame. Some mothers memory remains'), con le voci dei quattro musicisti che si inerpicano strozzate su una melodia dolcissima e incisiva allo stesso tempo.

"Drivin'" è un blues intinto nel folk e nel country, dal singhiozzante ritmo che simula il viaggio di un'automobile. Il tono scanzonato e pigro del brano si sposa con il testo che mostra un momento di distrazione e pace nella vita dei coniugi Arthur e Rose. "Brainwashed" si rifa all'epoca più r&b/r&r del gruppo e alla musica rock inglese dei primi anni del decennio. "Australia", che dura quasi sette minuti, ha un grande inizio da canzone rock, con l'ottimistico, ruggente inno ai tesori disponibili nella 'terra delle opportunità' nell'altro emisfero, un brano che tocca momenti epici, solenni, malinconici, sfiorando a tratti la surf music e il pop dei Beach Boys, cambiando continuamente atmosfera nell'arco della sua prima metà; viene però conclusa da una lunga jam che non vede il quartetto esattamente a suo agio - tendenzialmente si deve andare da qualche parte con una improvvisazione o un assolo, e qui la sensazione è che il brano resti piuttosto statico e tradisca la propria brillantezza iniziale.

Un terzetto di brani meditabondi, preoccupati se non proprio pessimistici, apre il lato B del disco. "Shangri-La" inizia come un malinconico folk costruito sulla chitarra acustica e poi si trasforma in un pezzo art rock decorato con clavicembalo, cori e un crescendo importante sostenuto dalla sezione ritmica e dai fiati; si tratta di una riflessione sul benessere piccolo borghese della società dei consumi, ma anche su ciò che resta di una vita di lavoro e onestà quando si invecchia. La sarcastica "Mr. Churchill Says" (colorata dai superbi incisi bluesy e frigi di Dave Davies) e la dimessa, ingenua "She's bought a hat like princess Marina" (che si trasforma poi in uno scatenato vaudeville ebbro di semplicità e inconsapevolezza) trattano liricamente della seconda guerra mondiale e dell'austerity post-bellica, con strazianti immagini che comparano le tribolazioni dell'uomo qualunque con le vite dei grandi personaggi della politica e della corte.

"Young and Innocent Days" prende la tristezza implicita nei brani precedenti e la rende esplicita, con una sezione centrale che si rifa musicalmente agli inni sacri della tradizione anglicana. L'eccellente "Nothing to Say" ci riporta su un grintoso, sarcastico mid-tempo in cui possiamo ammirare la potenza, la scioltezza e il tocco di Mick Avory alla batteria. "Arthur" porta a termine il disco con un country blues rock caratterizzato da una ironica bonomia, che rappresenta un deciso anticlimax rispetto sia alle canzoni che la precedono sia riguardo al tema generale del disco.

Capolavoro del rock britannico di sempre, "Arthur" è a nostro parere il migliore album di una delle migliori band del Regno Unito, e anche una dichiarazione artistica che dovrebbe far riflettere chiunque pensi che la nostalgia sia un sentimento solo del giorno d'oggi. Uno dei punti di forza del disco è il suono che viene scientemente tenuto granuloso e scuro proprio per enfatizzare sensazioni di nostalgia e di tempi andati, una produzione che allo stesso tempo enfatizza e valorizza la grinta e la capacità di graffiare dei quattro musicisti. Naturalmente, però, al centro di tutto ci sono le canzoni, che restano come testimonianza delle capacità autoriali di Ray Davies e della facilità con cui i suoi compagni di viaggio sapevano dare loro forma.

- Prog Fox

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